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Rutelli Favola di Cicciobello ha le gambe corte, ma dalla Cricca a Lusi sbaglia sempre amici

La strana versione dell'ex radicale che dà lezioni di onestà ma dimostra scarsa lungimiranza

Andrea Tempestini
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«La mia cultura è quella di chi vive la politica come passione. Siamo stati traditi nella nostra fiducia. Leggevo i bilanci come tutti coloro che li approvano in assemblea, mi fidavo ciecamente». Ecco, magari Francesco Rutelli, che l'altra sera in televisione si è chiamato fuori dallo scandalo in questo modo, è stato davvero tradito dal suo amico e tesoriere Luigi Lusi, che gli ha sfilato 18 milioni da sotto il naso. Ma chi conosce un po' la storia del partito radicale, di quella «cultura» sicuramente onesta da cui Rutelli proviene e che il presidente della Margherita adesso cita ogni momento come prova del suo candore, sa che da quelle parti la parola «fiducia» non è mai esistita. Al contrario: si passava al microscopio ogni riga del bilancio. E nei congressi radicali, sino alle quattro del mattino, non ci si beava della «politica come passione», come vuole far credere Rutelli adesso, ma si discuteva di vilissimi soldi. Di quanti tesseramenti fossero necessari per sopravvivere, di che uso fare del finanziamento pubblico dei partiti: se restituirlo ai cittadini, usarlo per strutturare il partito su base regionale o per finanziare Radio Radicale. Il partito pannelliano in cui Rutelli è cresciuto e diventato uomo politico non era il rifugio dei puri e degli idealisti. «Eravamo onesti proprio perché interessatissimi e attentissimi ai soldi, sino al centesimo», racconta un dirigente radicale di quegli anni. E da questo punto di vista a Torre Argentina non è cambiato molto. Non «politica come passione», quindi, ma «politica come responsabilità», innanzitutto patrimoniale, secondo l'etica protestante di Marco Pannella. Rutelli, che adesso fa il Cicciobello tra le nuvole, tutte queste cose le sa benissimo: nel 1980 fu eletto segretario del partito radicale e dopo ne divenne il tesoriere, cioè il diretto responsabile di quella contabilità dalla quale dipendeva l'esistenza politica dei radicali. Sentirlo evocare ora quell'esperienza quale scuola di disinteresse al denaro ha un effetto ridicolo, che fa fare a Rutelli la figura del disperato rimasto a corto di cartucce. Anche perché, a volerlo prendere sul serio, ci sarebbe da chiedersi cosa sia rimasto a Rutelli di quella «cultura» liberale e libertaria di cui ancora si vanta. Molto poco, parrebbe. E non da oggi, ma almeno dal 30 aprile del 1993: Bettino Craxi è stato appena bersagliato dalle monetine e Rutelli, che da lì a poco sarà candidato a sindaco di Roma dalla coalizione di sinistra, sul palco allestito in piazza Navona dal Pci-Pds di Achille Occhetto si sgola come un invasato: «Io a Craxi non porterei neanche il rancio in galera!». Nessuno dei suoi compagni radicali ha imboccato questa deriva moralista e giacobina, preferendole semmai l'uscita di scena dalla politica. Pochi anni prima, da capogruppo dei alla Camera, durante il periodo di Craxi a palazzo Chigi, Rutelli aveva appiattito sul governo la pattuglia dei deputati pannelliani, diventata più filocraxiana dello stesso gruppo socialista. Erano gli anni in cui, assieme alla compagna Barbara Palombelli, trascorreva le serate nei locali della Roma piaciona con Bettino e gli altri del Psi. Ora è esploso lo scandalo Lusi e tra i reduci della Margherita iniziano a partire i primi attestati di sospetto. Pierluigi Castagnetti la butta lì: se i soldi gestiti dal tesoriere ed amico di Rutelli fossero stati spesi per pagare un convegno dell'Api, dice, «verrebbe messo in discussione il rapporto di lealtà politica tra noi». Siccome Rutelli non merita il trattamento che fece lui a Craxi va considerato innocente a tutti gli effetti. Però, alla voce «responsabilità politiche», non si può non ricordare che è la seconda volta, nel giro di pochi mesi, che gli tocca fare la figura dello sprovveduto circondato da amici e manager impresentabili. La prima volta è accaduto per la Cricca: il clan messo insieme da Angelo Balducci e finito al centro dell'inchiesta giudiziaria sui Grandi Eventi ebbe come palestra gli appalti romani per il Grande Giubileo del 2000, la torta gestita da Rutelli nella duplice veste di Commissario straordinario e sindaco della capitale. Adesso tocca al braccio destro, l'uomo di cui lui si «fidava ciecamente», al punto da garantirgli consulenze profumatissime benché – stabilirà poi la Corte di Conti – Lusi non ne avesse i requisiti richiesti. L'unica cosa chiara, al momento, è che chi come Rutelli ha dedicato gli anni migliori della propria vita politica a mettere simili volpi nel pollaio della cosa pubblica non è all'altezza di occupare posizioni di leadership né nel terzo né nel quarantesimo polo, e tantomeno di candidarsi a gestire qualunque tipo di amministrazione. «Avrei affidato a Lusi 100mila euro per una donazione benefica», dice adesso Rutelli. Dovrebbe essere una giustificazione, ma assomiglia molto a un'autocertificazione d'incapacità d'intendere. di Fausto Carioti

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