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Facci racconta Mani Pulite: così Di Pietro diventò idolo

Tangentopoli 20 anni dopo: murales, strisioni, titoloni dei giornali: un carrozzone che ha reso il pm "meglio di Pelè"

Giulio Bucchi
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Ieri raccontavamo che i cosiddetti principi del foro, con poche eccezioni, durante Mani pulite non batterono chiodo. Non era sfuggito che avvocati poco noti, ma graditi ad Antonio Di Pietro, erano i difensori di tutti i principali accusatori di Tangentopoli: cambiare avvocato si traduceva in un cambio di atteggiamento e in una potenziale svolta processuale, ergo si usciva dal carcere o neppure ci si entrava. Il semi-sconosciuto Giuseppe Lucibello, compagno di bisboccia di Tonino, assunse difese clamorose come quella del banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia. Anche il democristiano Roberto Mongini, che di legali ne cambiò addirittura tre, cambiò e cominciò a parlare. Uno come Salvatore Ligresti rimase in carcere per cinque mesi sinché cambiò avvocati e fu subito liberato previo cambio di atteggiamento. Autentica guerra di nervi fu poi quella combattuta da Michele Saponara, presidente dell'Ordine degli Avvocati: il socialista Loris Zaffra, da lui difeso, rimase a San Vittore per sei mesi sinché non dette incarico a un altro e fu l'apriti sesamo. Eppure, fiutata l'aria, Zaffra era giunto a far verbalizzare: «Non intendo avvalermi di un altro avvocato ». «La Procura», accusò Saponara, «fece sapere alla famiglia di Zaffra che se voleva tornare libero doveva cambiare avvocato». A tal proposito, ascoltato dagli ispettori ministeriali nel 1995, Saponara produrrà una testimonianza secondo il quale un pm del Pool aveva urlato a Zaffra: «Se non cambia legale, si dimentichi di uscire». Ma le accuse non trovarono conferma. Col tempo, e col progredire dell'inchiesta, architrave di Mani pulite diverrà invece lo studio del professor Federico Stella, eminenza grigia, difensore dell'Eni e futuro ghostwriter di Antonio Di Pietro. Il professor Stella difese l'imprenditore Fabrizio Garampelli, che con le sue confessioni spedì in galera praticamente chiunque tranne se stesso; difese uno sterminato numero di dirigenti dell'Eni «buono» ed elaborerà ben due proposte di legge per uscire da Tangentopoli, entrambe appoggiate dal Pool: una a ottobre 1992, elaborata in seno all'Assolombarda, di cui pure era difensore, e un'altra praticamente identica nel settembre 1994, presentata in pompa magna alla Statale di Milano. A dispetto di queste semplificazioni, comunque, in Mani pulite trovarono spazio anche avvocati con posizioni più varie e sfumate. Quando L'Espresso nella primavera 1993 pubblicò una specie di hit parade degli avvocati di Tangentopoli (titolata «Primo Bovio, ultimo Chiusano») il presunto vincitore, Corso Bovio, scrisse così al settimanale: «La qualità di un avvocato non si misura dalla durata della carcerazione... Credo che la sua funzione sia quella di far rispettare la dialettica del processo. Mi autoassolvo, ma non sento di assolvere il mio ruolo... Perry Mason non è famoso perché pilota le confessioni o patteggia le pene. Oggi sono vincenti l'inquisizione, il pentitismo, lo Stato di Polizia con le sue manette e le sue galere». Intanto il pool proseguiva con una tripartizione precisa: Di Pietro interrogava, Colombo spulciava le carte e Davigo vergava le richieste di autorizzazione a procedere. Italo Ghitti invece autorizava gli arresti «privilegiando la rapidità al cesello», come dirà Colombo. Dirà invece Di Pietro, appena più grezzo: «Io andavo dai colleghi e segnalavo un'operazione che mi puzzava. "Vedi che cosa è successo qui?" Questo secondo me è un reato di porcata... Cari Davigo e Colombo, cavoli vostri, entro domattina trovate una soluzione che dal punto di vista giuridico non faccia una piega perché non voglio rischiare una sconfitta dal tribunale della Libertà”». Traduzione: io lo metto dentro, il come e il perché trovatelo voi. Ha raccontato Primo Greganti, storico inquisito comunista: «Avevano emesso un mandato d'arresto illegittimo. Ma, dopo aver ammesso l'errore, Di Pietro mi disse: “Adesso vado da Davigo, e vedrai che lui un motivo per tenerti dentro lo trova”. Fatto sta che tornai in cella per altri ventisei giorni». A Di Pietro era permesso tutto, anche perché si avviava a divenire un eroe nazionale: partecipò alla festa della Polizia e l'applaudirono per due minuti. Il suo status era cambiato in un niente: gli avevano riverniciato la stanza, aveva quattro scrivanie, tre computer e due poltroncine girevoli in similpelle. Gli giungevano migliaia di lettere da tutt'Italia, soprattutto immaginette sacre e santini di Padre Pio, e la sera le portava a casa per leggerle al figlio. Il Corriere della Sera, nella sola settimana dal 7 al 15 maggio, sfoderò questi titoli: «Il pm contadino, quasi un eroe», «La domenica tranquilla dell'eroe», «Il fascino discreto dell'uomo onesto». Il dipietrismo nacque ufficialmente in maggio. La prima scritta era stata individuata nel parcheggio dello stadio di San Siro: «Di Pietro, sei meglio di Pelè». Poi un «Grazie Di Pietro» in via Manin e poi lo striscione «Di Pietro sindaco» ancora a San Siro. E così via. «La rabbia degli onesti corre sui muri» titolò l'Unità del 10 maggio. A metà del mese ecco la prima fiaccolata pro Di Pietro con cabaret finale a cura di Lella Costa, David Riondino, Paolo Rossi più una giovanissima Sabina Guzzanti. Il 30 maggio, su Italia Uno, Gianfranco Funari nel suo programma «Mezzogiorno italiano» fece partire uno spot quotidiano con immagine di Di Pietro che camminava e una voce di sottofondo che lo incitava: «Vai avanti... vai avanti...». Anche la strage di Capaci registrò il tentativo di sfruttare la morte di Falcone per portare acqua a Mani pulite. Il magistrato morì un sabato, e lunedì 25 maggio «la Repubblica» uscì in edizione straordinaria col titolo «L'ultima telefonata con Di Pietro». La morte del magistrato siciliano ebbe il potere di accelerare l'elezione del presidente della Repubblica dopo un interminabile gioco di fumate nere, veti e contro-veti. Il 25 maggio elessero Oscar Luigi Scalfaro, sponsorizzato da Marco Pannella e Bettino Craxi, che non se ne pentiranno mai abbastanza. Dopo le tormentate elezioni di Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini alla Camera e al Senato, anche la corsa per palazzo Chigi s'avviava a conclusione: «Craxi», sussurravano tutti. Ma la sera del 3 giugno la notizia era un'altra: «C'è anche il nome di Craxi nell'inchiesta sulle tangenti» disse il Tg1. Di Pietro precisò: «Allo stato il mio ufficio non ha rilevato nulla di penalmente rilevante che possa riguardare la famiglia Craxi». Allo stato, Craxi non sarebbe stato presidente del Consiglio, punto. La sua parabola si fece discendente anche se il 3 luglio pronunciò un discorso alla Camera destinato a passare alla Storia, parole che per buona parte riverserà in un altro discorso che pronuncerà il successivo 29 aprile 1993, giorno precedente all'assedio dell'Hotel Raphael. Craxi chiese al Parlamento di assumersi le proprie responsabilità per trovare una soluzione politica alla crisi della Prima Repubblica. Lo fece quando mancavano quasi sei mesi a un suo coinvolgimento effettivo in Mani pulite, e quando l'eventualità che potesse essere inquisito pareva semplicemente impensabile. Racconterà il segretario amministrativo della Dc Severino Citaristi: «Dissi a Forlani che era il momento di prendere posizione, ma invano». Secondo Giovanni Pellegrino, Pds, allora presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, «Quando Craxi fece quel discorso c'era ancora qualche margine per fare almeno delle riforme che consentissero di uscire dal pantano, ma non se ne fece niente perché Occhetto aveva altri programmi: pensava che il Pds sarebbe uscito indenne e che gli altri partiti sarebbero stati cancellati dalla geografia politica». Agosto fu il mese dei  tre corsivi sull'«Avanti!» vergati da Bettino Craxi. Il segretario socialista il 23 la mise giù dura: «Col tempo potrebbe persino risultare che il dottor Di Pietro è tutt'altro che l'eroe di cui si sente parlare, e che non è proprio oro tutto quello che riluce». Senza farla tanto lunga: il poker di Craxi non era un bluff, tutte le  carte - Mercedes svendute, frequentazioni, prestiti eccetera - verranno calate negli anni successivi e saranno decisive per le dimissioni di Di Pietro dalla magistratura. Ma allora non c'era neanche il tavolo per giocare. Di fatto, per qualche tempo, fioccarono le scarcerazioni: «Come mai», notò anche il Corriere della Sera, «Di Pietro rinuncia alla sua proverbiale risolutezza? Perché una linea tanto morbida?» Se lo chiese anche Gherardo Colombo: «È successo che tornando dalle ferie estive dissentisse su iniziative di Piercamillo e mie in tema di custodia cautelare... Ciò si verificava contestualmente al fatto che la stampa avesse avuto da ridire su alcuni aspetti dell'indagine». Ma forse, a contribuire a una certa cautela, il 3 settembre era stato anche il terribile suicidio del deputato socialista Sergio Moroni. La sua toccante lettera spedita al Presidente della Camera, letta al Tg2 e pubblicata da tutti i giornali, denunciava un clima da caccia alle streghe e risvegliò qualche orgoglio parlamentare. Ma erano colpi di coda. Il 19 settembre il cassiere socialista Vincenzo Balzamo passò da Palazzo di Giustizia e fu preso d'assalto dai cronisti: e nessuno di loro ricorda quel giorno con particolare orgoglio. Ma la sindrome era tale che L'Avanti!, poco tempo dopo, titolò «Querci: ho dato 400 milioni a Balzamo» quando nessun altro giornale fece altrettanto, anche perché Balzamo intanto era sul letto di morte. Il 2 novembre fu stroncato da un infarto e l'Indipendente titolò in prima pagina «Balzamo, infarto da mazzetta». Quello stesso giorno altri giornali titolavano invece «Di Pietro in autostrada soccorre una ferita» e resta il fatto che tutte le accuse contro il segretario amministrativo del Psi, di lì poi, sarebbero state deviate su Craxi. di Filippo Facci 4/Continua

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