Pansa: Landini nega le mire, ma è l'uomo nuovo a sinistra

Andrea Tempestini

Non è del tutto vero che la sinistra italica sia incapace di esprimere nuovi leader. Almeno uno l’ha partorito, tra la fine del 2011 e l’inizio di questo 2012. È Maurizio Landini, 51 anni, segretario generale della Fiom, i metalmeccanici della Cgil. Qualcuno obietterà: questo Landini non è un politico, ma un sindacalista. Errore: pochi se ne sono accorti, però sulla scena del progressismo sfibrato e rissoso è arrivato un tipo sinistro che farà molto parlare di sé. Se non sapessimo che la sua è una storia vera, potremmo pensare a una fiction realista, costruita da uno sceneggiatore attento. Nascita del Landini in un paese della montagna di Reggio Emilia. Famiglia povera con cinque figli. Studi interrotti perché mancano i soldi per proseguirli. Ingresso obbligato nel mondo del lavoro a 15 anni, apprendista meccanico in una bottega artigiana a San Polo d’Enza. Il percorso di Landini nella politica e nel sindacato inizia subito dopo quando viene assunto come saldatore in una cooperativa metalmeccanica, la Ceti di Corte Tegge, una frazione di Cavriago. Attenzione al posto: siamo in un’area assai più rossa della montagna reggiana. Cavriago è il paese diventato famoso perché ancora oggi conserva in piazza il busto di un signore che il comunismo l’ha inventato: il compagno Lenin, padre di tutte le rivoluzioni. È alla Ceti che il ventenne Landini viene eletto delegato sindacale. L’ambiente non potrebbe essere migliore. La provincia di Reggio Emilia è tra le più rosse d’Italia. Qui la guerra civile è durata a lungo, ben oltre il 25 aprile 1945. I morti ammazzati nel dopoguerra sono stati davvero tanti. Nel settembre 1946 lo stesso Togliatti, messo in allarme da tutto quel sangue, è costretto a intervenire per tagliare la testa al vertice reggiano del Pci, guidato da un segretario federale diventato pazzo per una sifilide curata male. Alla vigilia degli Ottanta, il Pci di Reggio Emilia è un blocco strapotente e compatto, dove il dissenso è visto come il diavolo in chiesa. Subito dopo il Partitone viene la Cgil, un altro potere di ferro, a volte guidato da dirigenti ottusi: un apparato prigioniero del proprio orgoglio e reso arrogante da un’ideologia totalitaria. Se Landini fosse rimasto nel Reggiano forse avrebbe subito anche lui le angherie patite da altri giovani sindacalisti. Ma la fortuna, ossia la Fiom, lo aiuta, poiché lo manda a Bologna dove il giovane saldatore incontrerà il proprio maestro: Claudio Sabattini, destinato a diventare segretario generale dei meccanici Cgil. Sabattini è un personaggio enigmatico, quasi sconosciuto alle cronache che, allora come adesso, si occupano soprattutto dei partiti. Nato nel 1938 e oggi scomparso, viene chiamato dai suoi «il Bruciato» perché un incidente avvenuto in una sede sindacale gli ha segnato il volto. Ma il soprannome rivelatore è un altro: «il Sandinista». Deriva dall’esperienza rivoluzionaria del Fronte di liberazione del Nicaragua, intitolato ad A.C. Sandino, l’eroe della resistenza contro l’occupazione americana. Il segretario della Fiom di Bologna non è un rivoluzionario, anche se forse pensa di esserlo. È un intellettuale comunista del tipo radicale, con Pietro Ingrao come padre ideale, convinto che la missione principale di un sindacato sia combattere il capitalismo e cambiare la società. Non è un leader fortunato. E lo si vedrà nel 1977 quando, dopo aver diretto la Fiom di Bologna e poi di Brescia, da Roma verrà inviato a Torino con l’incarico di seguire la Fiat e il comparto dell’auto. Sono anni terribili. La Fiat è in gravissima crisi. Per l’eccesso di manodopera, l’esasperata conflittualità interna e l’offensiva del terrorismo rosso, pronto a uccidere. Verso la fine del 1977, le Br ammazzano Carlo Casalegno. Dopo una serie di delitti politici, nel settembre 1979 viene accoppato un dirigente Fiat, Carlo Ghiglieno, che guida la pianificazione del gruppo auto. L’anno successivo vede il lungo blocco di Mirafiori, poi stroncato in ottobre dalla marcia dei quarantamila che vogliono tornare al lavoro. Il Bruciato è il primo degli sconfitti. La sua carriera sembra finita, ma non è affatto così. Nel 1994 viene eletto segretario generale della Fiom. Dopo di lui, nel 2002 arriva alla guida dei metalmeccanici Gianni Rinaldini, cresciuto nella Cgil di Reggio Emilia e poi in quella di Bologna. E dopo gli otto anni del mandato sarà Rinaldini a mettere in sella l’ex ragazzo della montagna reggiana. Landini diventa il numero uno della Fiom il 1° giugno 2010. Eletto con un voto massiccio espresso dal comitato centrale dei meccanici: 124 voti a favore, un solo no, una scheda bianca e 40 astenuti. Da quel momento la linea della Fiom cambia. Ma a mutare più di tutti è il suo carattere primario. Siamo di fronte a un sindacato di categoria che radicalizza i propri obiettivi generali. Sino a far pensare che il suo destino sia diventare un partito. Il segretario della Fiom ha sempre negato questo proposito. Eppure molti indizi lo confermano. Oggi in Italia i partiti di sinistra sono tre: il Pd di Bersani, la Sel di Vendola e l’Idv di Di Pietro. Più l’appendice di qualche partitino evanescente come il poco che resta di Rifondazione comunista. Tutti sono afflitti da problemi pesanti: incertezza sulle alleanze, poca concordia fra loro, dissidi interni, scarso controllo del territorio come dimostrano le maledette primarie. Per i democratici c’è in più il sospetto di misfatti tangentizi, emersi dal caso Penati e dalla vicenda tortuosa di Lusi, il cassiere della ex Margherita. Quello della Fiom di Landini è invece un gruppo compatto. Dotato di una truppa robusta di iscritti: 370 mila. Finora non infettato dal virus degli affari sporchi. E soprattutto guidato da un leader con una gran voglia di essere autonomo dalla casa madre, la Cgil di Susanna Camusso. Che cosa gli manca per diventare un partito? Ben poco. Il suo obiettivo generale è lo stesso del Bruciato: cambiare la società anche fuori dalla fabbrica. Landini non rifiuta questo traguardo, la missione vera della Fiom. A sentir lui, oggi la democrazia italiana ha margini scarsi, poiché il potere decisionale è concentrato in poche mani. A cominciare da quella del nemico numero uno, il più forte, il più pericoloso: Sergio Marchionne, il capo della Fiat. È lui il capitalista da sconfiggere, insieme a quei partiti che s’inchinano davanti al suo strapotere. La Fiom un partito? Landini smentisce di coltivare questo progetto. Forse è sincero. Conosce bene quanto è accaduto a un leader sindacale come Sergio Cofferati. Quando ha fatto pensare a un ingresso in politica, i partiti lo hanno distrutto. La forza di Landini è mantenere l’ambiguità che gli ha regalato il trionfo di venerdì a Roma. Per ora si limita a imporre il proprio personaggio. Con un uso accorto dei media. Un libro intervista. Una presenza continua in tivù. Una politica di spregiudicata apertura nei confronti dei tanti movimenti antagonisti, primo fra tutti la fazione ribelle dei No Tav. I metalmeccanici di Landini stanno diventando il centro di attrazione per molti soggetti che avevano sperato di trovare nel Partito democratico un sostegno e un alleato. Con i tempi che corrono è da avventati fare previsioni. Ma se la confusione sotto il cielo della sinistra è alta, la situazione per il futuro partito di Landini è più che mai eccellente. Osserviamo con attenzione le mosse dell’ex ragazzo sceso dalla montagna reggiana. Le sorprese non mancheranno. di Giampaolo Pansa