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Tra pensioni, Iva e contributi Chi paga la riforma del lavoro

I provvedimenti costeranno alle imprese 2,7 miliardi, l'assicurazione sociale altri 1,2. E c'è l'innalzamento delle aliquote

Giulio Bucchi
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Paccate di miliardi. Tralasciando l'opportunità di uno slang più adatto ad un padroncino della Bassa che ad un ministro della Repubblica, è proprio vero che il governo ci metterà «paccate di miliardi»? Al momento no, e - alla faccia della sincerità -  il ministro del Welfare Elsa Fornero ha premesso candidamente che si sta «ancora cercando» dove trovare questi ipotetici miliardi: 2, 3, 4? Boh. La trattativa in corso, per la riforma del lavoro, riporta l'attenzione sulle risorse economiche per rendere più “fluida” l'uscita dei lavoratori e rendere meno conveniente (alle aziende) il ricorso ai contratti atipici. L'inversione di marcia dei sindacati che fino all'altro ieri minacciavano sfaceli e ieri sono usciti da un incontro top secret a 5 (il ministro e i soli vertici di Cgil, Cisl, Uil e Ugl), con la bocca cucita, conferma che la famosa paccata è pronta a trasformarsi in una mazzata. Sulle imprese, e in particolare su quelle di più modeste dimensioni. Pmi, una nuova tassa - Chi all'orizzonte vede nuvole nere addensarsi sono, soprattutto, le piccole e medie imprese del terziario. L'idea, scaturita all'incontro di lunedì, di far pagare un contributo dell'1,3% a lavoratore (l'1,4% per quelli a termine) per attivare il nuovo paracadute dell'Assicurazione sociale per l'impiego (Aspi), avrebbe un impatto pari a 1,2 miliardi di euro per i quasi 5 milioni di lavoratori dei settori artigianato, agricoltura e commercio. In sostanza il piccolo artigiano o il bar sotto casa dovrebbero sborsare almeno 400 euro l'anno in più per ogni addetto. In verità già oggi queste categorie pagano un obolo.  Ammesso e non concesso che una piccola azienda tutto vuole tranne che liberarsi dei preziosi collaboratori, dai dati aggregati sull'assicurazione infortuni, per esempio, salta fuori che le aziende artigiane da sempre versano all'Inail più di quanto incassino dall'ammortizzatore. Idem per gli altri ammortizzatori. Insomma, il rischio è che la nuova tassa Aspi faccia affluire risorse verso la grande industria, o trasferisca semplicemente miliardi nel mare magno del fondo unico per garantire un paracadute alla disoccupazione, per esempio, dei dipendenti pubblici in esubero. I niet di Confindustria - Se i “piccoli” temono un salasso, non va molto meglio agli industriali.  L'anticipo della riforma (dal previsto 2017 al 2015) non piace. E non solo perché, come ribadisce Emma Marcegaglia, le aziende sono già «alle prese con una profonda ristrutturazione». Il problema è che anticipando la riforma degli ammortizzatori  - e introducendo nuove clausole per gli esodi - si potrebbe andare ad impattare con la riforma delle pensioni. Oggi la cassintegrazione e la mobilità lunga assicurano uno scivolo collaudato verso il pensionamento (fino a 5 anni). Certo, le aziende pagano una buona parte del contributo, però gli ultimi anni di crisi economica dimostrano che il sistema industriale ha prelevato più di quanto versato. Il timore è che venendo meno questo sistema di vasi comunicanti le aziende si trovino nella condizione di dover staccare un assegno consistente. Sempre che non passi la vecchia linea: non 2015, ma a regime nel 2017. Batosta pensioni - Paccate di miliardi le imprese ne hanno già tirate fuori (e con esse i lavoratori che hanno dovuto posticipare di anni l'età della pensione). Secondo le prime proiezioni con l'innalzamento dei contributi le Pmi hanno dovuto caricarsi di ben 2,7 miliardi di costi accessori. Come se non bastasse l'innalzamento dell'Iva che ha limato i già stretti margini delle imprese. Insomma, nel “pacco” del governo c'è di sicuro un trasferimento dell'onere: dalla fiscalità generale alle imprese. Piccole. di Antonio Castro

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