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Annebbiato e anche malato: Senatùr fregato dai figli?

Paragone: Si è sempre disinteressato dei soldi, ma poi qualcuno ha agito alle spalle di Umberto, anche nella sua famiglia

Giulio Bucchi
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C'era una volta l'Umberto Bossi in canottiera e improbabili calzoncini, libero da strani abiti dove la giacca non s'accoppiava alla camicia e la camicia con la cravatta. C'era una volta l'Umberto Bossi che viaggiava con una scassata Citroen e un'idea in testa. Egli era la Lega. La Lega che costringeva i grandi pensatori della politica a misurarsi con un soggetto strano e con un linguaggio strano che facevano presa su un popolo non meno strano. Tanti anni dopo, dentro il fortino della Lega di potere in via Bellerio si entra con le macchine blu e con gli abiti belli. C'è addirittura un signore che nella sede del Carroccio entra con un costosissimo Porsche. E da quel Porsche scende azzimato, sicuro di sé come fosse un gradino sotto il Capo. O forse tale si crede d'essere perché è il tesoriere del partito. Anzi era, vista la bufera giudiziaria scoppiata in casa Lega? C'era una volta dicevamo. C'era una volta l'Umberto dai vestiti buttati addosso a dispetto delle taglie e delle mode, interrotti da cravatte e camicie che facevano a cazzotti per colore e fantasie stilistiche. Perché lui, di quelli con l'abito bello e la cravatta in tinta, diffidava. «È gente che si fa comprare», diceva. Questo era il mondo dell'Umberto da Gemonio: un mondo dove il vestito non faceva il monaco e anzi più vestivi strano e più eri in sintonia col popolo, con la gente che si mette in coda per avere la firma del Segretario, per farsi autografare la maglietta o per avere la foto assieme. Era un mondo dove le macchine servivano per esplorare ogni angolo del Nord, anche quello più sperduto; per dormirci dentro tra un comizio e l'altro; per mangiare al volo un panino. Erano macchine consumate di politica; maleodoranti di sigarette prima e di toscano poi, macchine bruciacchiate per la cenere che cadeva ancora viva. Erano macchine deposito di carte, progetti, fogli, manifesti e volantini. Macchine fatte per essere utilizzate non per farsi notare. Non è un caso che il ricordo più frequente che Bossi cita nel raccontare la sua amicizia con Maroni riguardi «quella sera che con la 500 nuova della mamma di Roberto siamo andati a scrivere sul ponte dell'autostrada e per la fretta di scappare dalla polizia ho rovesciato il barattolo di vernice sui tappetini». Perché le macchine erano il partito, non erano del partito. Dalla macchina Bossi chiamava la tipografia per dettare l'ultimo slogan della perenne campagna elettorale, slogan discusso e limato con l'autista di turno (il Babbini, l'Aurelio e gli altri: ognuno un pezzo di storia). E dentro quei bagagliai il Senatur schiaffava  cimeli e oggetti vari che i militanti gli consegnavano a disprezzo del buon gusto. Oggetti che  poi portava davvero a casa per conservarli. Era scomposto il mondo di quell'Umberto. Era disordinato, antiestetico. Era maleodorante. Ma sincero. Tremendamente sincero perché trasudava politica, passione, genuinità. Era un mondo antisistema che solo la mente caotica di un leader poteva plasmare siffatto. Quel mondo lì è rimasto integro fino alla malattia, solo dopo poco alla volta è stato smontato pezzo per pezzo. Partendo dal controllo delle macchine, degli autisti al seguito. Bossi non ha mai avuto bisogno di tante persone attorno, ecco perché la moltiplicazione dei paggetti è stato l'inizio della fine. L'inizio dei casini, a prescindere dalle accuse che le tre procure ora contestano all'ex tesoriere del Carroccio. Tante volte, ultimamente, ho criticato la leadership di Bossi sperando per lui un ruolo simbolico ma non più operativo. Questo cambio (inevitabile) si sta consumando per effetto di una guerra interna, guerra fortemente alimentata dalle ambizioni dinastiche del cerchio bossiano. La regia della moglie in molte vicende, la scelta di candidare il figlio, la presenza asfissiante di Rosi Mauro, il pressing di Reguzzoni, la difesa a oltranza di Belsito e tanto altro ancora, purtroppo sono errori che finiscono sul conto del Capo. Di un Capo stanco, il cui avvicendamento è indispensabile e naturale. Ciò detto, l'idea di un'uscita di scena del Senatur schiacciato da queste ombre investigative faccio fatica ad accettarla. Chi conosce Bossi sa che Bossi coi soldi ha un pessimo rapporto, tanto da non sapere – per esempio - quanto costasse stampare i manifesti. A lui competeva mettere sui manifesti le idee. Quello per lui era ed è «fare politica». I soldi – diceva – erano competenza di chi non è capace di farsi venire le idee, quindi di chi non sapeva fare politica. Questa estraneità gli ha causato tanti guai, fin da subito. L'idea dunque di un Bossi personalmente consapevole dei giri strani di Belsito non mi convince. A quanti oggi festeggiano la difficoltà del Senatur e della Lega dico: il fatto che in parlamento s'indebolisca una voce, magari folle, d'opposizione non è un bene. Lo dico con il distacco di chi dalle parti dei lumbard è visto come un traditore, se non (testuale) come uno stronzo. di Gianluigi Paragone

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