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Rosi Triangolo magico Umberto Mauro Manu: così la Nera conquistò Bossi, moglie e potere

Storia della "badante" del Senatùr: "terrona" odiata da tutti, ha scalato il partito grazie al rapporto personale con la tribù del leader

Giulio Bucchi
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E certo che per Rosi Mauro le dimissioni sono un gesto impensabile. Solo Umberto Bossi, l'unico capo che la segretaria del sindacato padano abbia mai riconosciuto, potrebbe convincerla a questa scelta per lei contro natura; e il capo ci ha provato, ha insistito e minacciato, ma senza successo, mentre fino a ieri bastava una parola, anche solo un cenno, e la Rosi scattava. Bisogna provare a capirla però, e andare oltre allo scandalo che ne ha devastato completamente l'immagine, che peraltro  non è mai stata il suo forte (è proverbiale la preoccupazione comune di Napolitano, Schifani e Fini di non lasciare mai l'Italia negli stessi giorni per evitare che Rosi divenisse capo dello Stato pro tempore anche solo per poche ore). Quella richiesta di dimissioni presentatale dal Senatur per lei è un tradimento. A Bossi, Rosi Mauro ha sacrificato la vita; certo, è stata ricambiata con un incarico per il quale non ha la statura, ma di bocconi amari ne ha dovuti inghiottire e la sua vicinanza al capo l'ha pagata con una solitudine totale all'interno del partito. La richiesta di mollare è una richiesta di suicidio: non si tratta solo di stipendio,  benefit, status, lei sa che dopo le dimissioni non l'aspetta più nulla. I militanti la detestano e i colonnelli del Carroccio che ora ne chiedono la testa da anni aspettano di farle la festa. Gavetta durissima - D'altronde, Rosi non è come Renzo, partito delfino e presto declassato dal padre prima a Trota e poi a rovina della famiglia. Delle tante che ci hanno provato, con la Pivetti è l'unica donna ad aver fatto carriera nel Carroccio, il più maschilista dei partiti. E ce l'ha fatta partendo  davvero dal basso. Ha iniziato come dipendente in un'azienda che faceva le pulizie al Comune di Milano e la sua poltrona di vicepresidente vicario del Senato l'ha conquistata con una gavetta dura e solitaria; un curriculum non ortodosso e sfibrante, fatto di prestazioni straordinarie, dedizione assoluta al capo e cento battaglie  vinte contro mille nemici, quasi tutti leghisti. Parla per tutte proprio la vicenda della vicepresidenza. Calderoli inorridiva al pensiero che la «Nera», il soprannome più delicato che le hanno rifilato in Lega, prendesse il suo posto ma dovette cedere a Maroni, che quando la Mauro si candidò:  «Sono segretario del SinPa, mi spetta il posto di Bobo, il ministero del Lavoro», riuscì a convincere Bossi: «Sarebbe un suicidio, è  inadeguata, la portavo ai tavoli sindacali giusto perché è dei nostri…». E in effetti, l'attività della Nera come esperta di lavoro a Roma fu fallimentare: da ministro del Welfare, Maroni riuscì a regalare al Sinpa uno scranno al Cnel, ma la Cgil  impiegò solo due mesi a ottenere l'espulsione di Rosi dal Consiglio, argomentando che il sindacato padano era un bluff e minacciando di provarlo. Così la fedeltà della Mauro fu premiata con Palazzo Madama; lei seppe accontentarsi, Bossi ribadì la sua leadership e il resto dei leghisti visse la cosa come un meritato sberleffo alle istituzioni romane. Guarda il video su LiberoTv: Rosi Mauro: "Non mi dimetto" La terrona - D'altronde, non è mai stata facile dentro il Carroccio la vita per Rosi Mauro da San Pietro Vernotico, provincia di Brindisi, classe 1962. Fin dal soprannome più utilizzato per lei, quel «la terrona», che nei corridoi di via Bellerio è un marchio d'infamia capace di troncare in un secondo ogni discussione e carriera. Per rincarare la dose poi, andava bene qualsiasi cosa, come la diceria di una nonna tunisina da cui la terrona avrebbe ereditato colori e forme: «Per questo è così nera, guardala bene, macché pugliese,  è africana».  Maldicenze, come la mania per l'occultismo, che poi però ha trovato un appiglio quando si è avuto la prova che a casa Bossi a Gemonio circolavano libri di magia nera. O la passione per il sesso forte e gli uomini più giovani, di cui non ci sono mai state prove, perché la terrona  è sempre stata riservatissima sulla sua vita privata, aggredendo chiunque si azzardasse solo a fare allusioni. Tanto che è sconosciuto anche ai suoi più stretti collaboratori se sia ancora sposata o se si sia formalmente separata dal marito Alberto, un tempo frequentatore della casa di Gemonio ma che da anni vive a Napoli e compare solo a Natale. Faccia amica - Per quindici anni la sola vera faccia amica su cui la Mauro ha potuto contare nel Carroccio è stata quella di  Bossi, con il quale ha sempre avuto un feeling speciale, fin da quando il Senatur la notò a un comizio. Era la fine degli anni '80 e una giovane e grintosa Rosi, già sindacalista Uil  stava gridando contro i delegati Fiom ed era a un passo dal prendere le botte. «Chi è quella lì che urla? Portatemela» ordinò l'Umberto. Così si conobbero e non si lasciarono più, tanto che nel '90 Rosi era già nominata segretario generale del Sindacato Padano e nel '93  era consigliere comunale e presidente della Commissione Lavoro nella Milano di Formentini. La sua strategia è sempre stata una sola: puntare tutto sul cavallo vincente, Umberto Bossi. «Ho sempre fatto come Bossi, e per questo non ho mai sbagliato» si vantava. Certo, non immaginava di doverlo imitare anche nelle dimissioni, e questo per una combattente come lei è come tagliarsi un braccio. Gli ultimi anni - Fino alla malattia del Senatur, nel 2004,  Rosi, più che a organizzare l'attività del SinPa, spendeva la giornata a incastrare la propria agenda con quella dell'Umberto, in modo da incrociarlo se passava nel pomeriggio alla «Padania», o quando a mezzogiorno si svegliava nella stanza che aveva in via Bellerio, nella sede della Lega, e scendeva a vedere chi c'era. Per il capo, Rosi era sempre disponibile, anche se lui chiamava tutto agitato nel cuore della notte. E nel tempo, del capo la Mauro ha preso anche qualche tratto caratteriale, come appunto l'abitudine di telefonare ai collaboratori appena le veniva un'idea, senza guardare l'orologio, di trattarli come una proprietà personale e di pensarsi e atteggiarsi a dittatore. Nel suo regno, il SinPa, questo sì vero capolavoro di magia, visto che nessuno ha mai potuto sapere quanti iscritti contasse, Rosi faceva quel che voleva e non rendeva conto a nessuno; prima di Bossi, il nepotismo nella Lega lo porta lei nel suo sindacato, dove ha assunto parenti e amici e che la Mauro non  esita a schierare contro i sindaci leghisti che non volevano riconoscerla e perfino contro Maroni, quando voleva abolire l'art. 18. Lei e la moglie - Il secondo tempo inizia l'11 marzo 2004, quando Bossi sta male. Subito, Rosi non sbaglia un colpo. Stringe un accordo personale con la moglie del Senatur, Manuela Marrone, e diventa di fatto parte della famiglia Bossi.  L'intesa nasce per caso e a sorpresa: il Senatur malato viene trasferito nottetempo dall'ospedale di Varese in una clinica svizzera segretissima, Rosi è fra i pochissimi ammessi al suo cospetto, l'unica donna oltre alla moglie. «Il patto delle terrone», come lo chiamano velenosamente quelli che in Lega volevano essere al posto della Mauro, nasce per praticità, opportunismo e imprevedibile affinità tra due donne che avrebbero avuto tutti i motivi per odiarsi e invece si mostrano furbe e lucide più di ogni uomo. Le regole sono semplici: Rosi viene affiliata ma in cambio deve sostenere la prole della Marrone e la vita del Senatur non deve avere più segreti per la moglie. Per svolgere il compito, ottiene un potere enorme: è in grado di licenziare l'Aurelio, il fedelissimo autista «muto» che ha sempre coperto il Senatur, e sceglie personalmente guardie del corpo e manovalanza, che cambia vorticosamente al primo sospetto o alla prima mossa sbagliata. Ha facilità di accesso alla cassa e di fatto comanda sul tesoriere Belsito. È talmente intima dei Bossi che, nel 2007 prende casa a Gemonio, di fronte alla villa di famiglia. Segue il capo anche in vacanza, a Ponte di Legno, dove si fa fotografare mentre insieme fanno le terme. Su ogni palco è sempre un passo indietro, a destra, a far partire gli applausi. Nel partito, è la voce del capo e fa quello che da sempre fa meglio: taglia teste e urla per conto di Bossi; molto più di Bossi, che avendo ben altro talento era  più buono. È lì che Rosi diventa «la Rosina», ma anche questo soprannome è una presa in giro, un vezzeggiativo a contrasto con un fisico da orango e una voce cavernosa. Il crollo - Nel 2008 viene eletta in Senato, ma solo perché ci sono i listini bloccati, fanno notare gli altri parlamentari padani, che sottolineano come, è dal '93, che la terrona non si sottopone al giudizio dell'elettorato leghista, sottintendendo che è odiata da tutti. Ottiene perfino la vicepresidenza, ma è davvero troppo per lei; ed è qui che comincia a sbagliare. Arrivata su in alto, Rosina si monta la testa. Nel presiedere una seduta del Senato   è protagonista di uno show che fa il giro di Internet e diviene proverbiale: mentre si approva la riforma Gelmini in aula si crea il caos e lei perde la testa, impreca, tratta i senatori come precari del SinPa e approva urlando da sola, praticamente senza voto, mezza riforma,  costringendo Schifani a ripetere la votazione alla seduta successiva denunciando «manifeste irregolarità». Il pressing - Pure nel privato perde colpi. Pensa di potersi permettere tutto. Per la prima volta, tradisce la sua riservatezza e presenta un uomo della scorta di Bossi, l'ormai famigerato Piero Moscagiuro, di 13 anni più giovane, come  suo amico intimo. Lo sposta dalla scorta a Roma, come segretario personale della vicepresidenza del Senato, gli fa produrre un cd e ne fa comprare tutte le copie alla Lega, per un totale di 30mila euro, quindi gli fa ottenere un mutuo casa alle condizioni agevolate dei senatori.  Si accorge di non essere laureata e provvede alla maniera del Trota, in Svizzera, o almeno così risulta dagli atti dei pm di Milano. Ha rapporti e scontri quotidiani col tesoriere della Lega Belsito, indagato per truffa, finanziamento illecito e appropriazione indebita, a cui chiede espressamente favori. Fino al tracollo, con i nemici di sempre, Maroni e Calderoli, che emettono un comunicato per sollecitare delle dimissioni che lei vive come un'ingiustizia, vittima di un delirio d'onnipotenza che per la prima volta la porta a disobbedire perfino a Bossi. Perché lei si è fatta il mazzo, ha detto sempre sì, ha fatto da amica, consigliera e badante e tutti quei privilegi se li è sudati. Chiederle di fare un passo indietro è un tradimento che non può tollerare, perché oltre Bossi lei non ha nulla, significa che hanno vinto gli altri. È una moglie abbandonata che non riesce a darsi pace né ragioni. convinta che è il marito a essere impazzito, e che continua a ripetere ossessivamente di non aver sbagliato nulla. di Pietro Senaldi

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