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Facci: quell'intercettazione con la morte in diretta

Il caso di un uomo trucidato nonostante i piani degli assassini fossero ascoltati dalla polizia. Perché non li hanno fermati?

Giulio Bucchi
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Un articolo di Luigi Ferrarella sul Corriere (articolo ottimo: accamparsi a Palazzo di Giustizia a qualcosa serve) documenta la storia di un tizio che è stato ucciso nonostante i suoi assassini fossero sotto intercettazione della polizia, anzi, a essere precisi progettavano per telefono proprio come trucidarlo. Almeno sette di queste intercettazioni, in cui si discuteva di come procedere al piano, sono state ascoltate «in diretta» dagli inquirenti che tuttavia non hanno fermato il delitto annunciato. E poco importa, ora, il rimpallo di accuse tra la Mobile di Como e l'Antimafia di Milano e il gestore telefonico: c'è un'inchiesta. Pare già più inquietante che la questione sia stata sollevata soltanto da alcuni avvocati: questo nonostante la procura abbia poi definito «evidente» l'intento omicida programmato alla cornetta. La morale che vogliamo trarne è quasi banale: le celeberrime intercettazioni non sono nulla se poggiano su incapacità o pigrizia o cattiva organizzazione investigativa, e asserire che senza cimici «non si possono fermare gli assassini» può non corrispondere a verità. Sono state fatte inchieste memorabili senza intercettazioni e ne sono state fatte di pessime spendendoci viceversa milioni di euro. La differenza tra inquirenti capaci e incapaci, o tra svegli e indolenti, può corrispondere a quella tra la vita e la morte. di Filippo Facci

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