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Muratori fan causa a Manuela "Non ci ha pagato per la villa"

Una ditta di simpatizzanti della Lega cita la moglie di Bossi: "Ci deve 30mila euro per la ristrutturazione della casa di Gemonio"

Giulio Bucchi
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Un'azienda edile “leghista” fa causa alla famiglia Bossi. E chiede di riavere circa 30mila euro, ovvero il conto di alcuni lavori effettuati tra la fine degli anni Novanta e il 2002. La storia comincia da lontano, intorno agli anni Settanta, quando l'allora anonimo architetto Giuseppe Leoni (che poi diventerà il primo deputato della storia lumbard e che attualmente fa parte del cerchio magico) conosce Gerolamo Bianchi, titolare dell'Impresa Cornelio Bianchi di Brunello, in provincia di Varese. Quando il Senatur acquista la sua villetta a Gemonio, Leoni gli indica quel nome per effettuare alcuni lavori di ristrutturazione. Si tratta di interventi al giardino e a una porzione dell'immobile. All'inizio, anche grazie al rapporto con Leoni e con Bossi in piena salute, fila tutto liscio e i pagamenti scattano puntuali. Nel 2002, però, succede che manca l'ultimo saldo. La famiglia di Umberto prende tempo, però nel 2004 accade l'imprevedibile. Il capo padano si sente male, rischia la vita e va in ospedale per lungo tempo. L'impresa non si fa più sentire per delicatezza, simpatia e fiducia nella famiglia (il figlio del titolare, Matteo Luigi, è il sindaco leghista di Morazzone). Torna alla carica solo a cavallo degli anni 2006-2007, parlando direttamente con Manuela Marrone a cui è intestato l'immobile. La moglie del presidente federale dei lumbard prende tempo. Poi decide di affidare la pratica al figlio Renzo, che nel 2010 è sbarcato al Pirellone raccogliendo quasi 13mila consensi in provincia di Brescia. Il Trota fissa appuntamenti con Gerolamo Bianchi: qualche volta dà buca all'ultimo minuto oppure non si presenta del tutto. Quando finalmente si fa trovare, non dà risposte definitive. Nel frattempo, a Gemonio entra in scena un'altra impresa. È quella che fa delle sistemazioni al terrazzo e di cui s'è parlato in questi giorni per capire se i quattrini che hanno saldato i conti fossero quelli dei rimborsi elettorali. Fatto sta che l'impresa varesina perde la pazienza. Prima manda alcune raccomandate. E meno di un mese fa ha chiamato in causa un avvocato di Milano, Ercole Romano, che scrive alla signora Marrone e invoca i famosi 30mila euro. Il rischio è che, essendo passati degli anni, la faccenda possa finire in archivio senza vedere un centesimo. La questione è finita sotto i riflettori nelle ultime ore, perché nelle carte dell'inchiesta che ha travolto la Lega spuntano alcune conversazioni tra l'ormai ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito e la segretaria di via Bellerio Nadia Dagrada, in cui si fa proprio il nome dei Bianchi. C'è da dire che il titolare dell'azienda, Gerolamo, non è militante di Alberto da Giussano. Il figlio invece è in prima linea. Tanto da essere uno degli astri nascenti dei padani in quel di Varese, un maroniano di ferro da parecchio tempo e che nelle ultime settimane s'era speso a favore dell'annessione della Lombardia alla Svizzera. Il Senatur ha sempre negato di conoscere i dettagli dei lavori effettuati in casa sua, versione data pure dal Trota. Che ai giornalisti aveva spiegato: «Gli operai erano arrivati quando mio padre era in ospedale». Peccato che l'azienda di Varese avesse finito nel 2002, due anni prima del coccolone che colpì Bossi. L'ex ministro, invece, aveva detto: «Hanno sbagliato a rifare il balcone che perdeva acqua, abbiamo chiamato uno della Lega bergamasca, il quale è venuto e ha detto mando mio cugino che ha una impresa: la colpa è nostra». Chi ha fatto la ristrutturazione, ha proseguito il fondatore lumbard, «è un tipo che da tanto non si faceva vivo e non ha mandato la fattura, può darsi che lo ha fatto da un'altra parte, però vediamo, ci sono molti lati oscuri...». Insomma: la fattura da Bergamo non è mai spuntata. Ma, soprattutto, non sono arrivati i quattrini per l'azienda di Varese. Tanto che Belsito si era segnato di dover pagare anche quel conto. Cosa che non ha mai fatto. di Matteo Pandini

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