Eterni Datura, miti italiani della dance: "Restiamo ai 90 perché è la musica di oggi"
"La magia degli anni '90 non si è persa, perché non è mai accaduto nulla che la facesse dimenticare". Parola dei Datura. Titani della dance, protagonisti di un momento cruciale e irripetibile per la scena italiana, hanno firmato classici come Yerba del Diablo, Eternity, Infinity, Mystic Motion, Voo-Doo Believe?, Will Be One. La techno/trance prima, l'euro house poi. E un marchio di fabbrica personale come costante di un viaggio introspettivo, sempre proiettato al futuro, tanto da far sembrare ancora attuali molte loro canzoni. Già 10 anni fa, prima di ogni reunion e di ogni produzione con le ormai logore citazioni dell'epoca, hanno riportato in auge quel decennio con il progetto Pezzi da 90. Il presente ha dato loro ragione, visto che le date del party e radioshow We Love The 90s si susseguono senza soluzione di continuità. "Abbiamo ballato per 10 anni a 128 bpm: è una cosa alienante. Oggi ci riteniamo dei miracolati", esordiscono sorridendo.
In che senso, scusate?
"La cosiddetta commerciale rasenta il concetto di inesistenza. Chi la propone, nei fatti, fa revival come noi, visto che al decimo pezzo è costretto a pescare roba di 3 anni fa. Le poche hit in circolazione restano in classifica un'eternità. Per questo abbiamo scelto di concentrarci esclusivamente sulla divulgazione della musica del passato".
Però chi andava a ballare negli anni '90 oggi non viene mica alla vostre serate...
"Abbiamo un pubblico di 20enni, roba da non crederci. Sotto quell'età magari no, visto che l'influenza di YouTube, sulle scelte musicali, è senz'altro forte. Di certo, i giovani scelgono di venire a sentirci perché trovano noiosa la musica di oggi".
Che pensate di tutte queste citazioni di pezzi anni '90? Normali corsi e ricorsi o la questione è più complessa?
"Nel '92 non è che in giro ci fossero tutte queste serate dedicate agli anni '80 o delle produzioni con riferimenti così chiari al decennio precedente. Quegli anni sembravano morti e sepolti. Ti basta prendere un pezzo dell'85 e confrontarlo con uno del '95: sembrano due mondi lontanissimi. Poi prendi lo stesso pezzo del 1995 e lo confronti con qualcosa del 2016: lo stile è identico".
Di fondo, esiste un problema generazionale?
"Oggi gli anni '90 rappresentano la colonna sonora di due o tre generazioni. Il fatto che feste dedicate a quel periodo siano arrivate addirittura in locali come l'Hard Rock Hotel Ibiza, vuol dire che il problema che segnali, evidentemente, esiste".
In cosa sbagliano i produttori, oggi?
"Negli anni '90 riuscivi ad entrare in classifica con dischi diversi dai soliti in circolazione. La libertà di sperimentare dava vita a nuovi sottogeneri, eravamo lontani da qualsiasi ricatto discografico. Anche oggi dovrebbe essere così, visto che dischi in realtà non se ne vendono più. Ma l'impressione è che nessuno abbia voglia di esplorare la musica. Facciamo fatica a capire i produttori di oggi, il loro sentirsi condizionati da chissà quale esigenza di mercato. Il refrain è: voglio diventare famoso. E in fretta".
La musica non più come fine ma come mezzo?
"Per cosa, però, non è chiaro. Alcuni giovani producer ci chiedono consigli su come realizzare la hit dell'estate. Ma cosa dovete realizzare per l'estate? (ridono, ndr). Il vostro compito è fare musica, che poi sia per l'estate o per qualsiasi altra stagione ha poca importanza. Chi pensa di far musica spende i suoi soldi per la promozione sui social o per comprarsi le copie dei suoi dischi. Si preoccupano di cose assurde, è una guerra dei bottoni".
Avete detto: "Una volta la discriminante era il talento, oggi sono i soldi".
"Il fatto che non girino più soldi, e che anzi si debbano investire quattrini per emergere, fa sì che a restare a casa sia chi un po' di talento lo possiede. Un tempo la musica era autonoma, oggi è al servizio dei talent. Abbiamo passato una vita a sottolineare quanto Sanremo fosse anacronistico proprio per la sua natura di gara e oggi non facciamo altro che organizzare concorsi. Una volta i discografici avevano il compito di promuovere la musica, ora vanno in tv a fare i giurati".
Anche per questo motivo, vi siete un po' rifugiati nel vostro passato?
"Lo abbiamo fatto perché crediamo che fare musica sia un po' come portare avanti un discorso. Vale la pena tornare quando si ha qualcosa da dire. E quel qualcosa deve segnare una rottura netta con quello che sei stato in passato. C'è gente che vuole fare i dischi per forza. E' una mentalità da discografici, non da artisti".
Come avviene il lavoro sui dischi degli anni '90?
"Per We Love The 90s, sia nel radioshow che nei locali, lo stile è quello originale. Proponiamo la musica di ieri come se fosse attuale. La gente ha la sensazione di ballare i successi di quel periodo, in realtà ascolta dei pezzi completamente rimaneggiati. Suoniamo brani degli anni '90 ma nel modo più tecnologico possibile. Idem per il programma ReMemo su m2o, dove l'ambito è quello della techno. Siamo orgogliosi di essere gli unici a poter dire la loro con autorevolezza sia in ambito techno/trance che per quanto riguarda la dance".
Che pensate del ritorno dei supporti fisici come oggetti vintage e/o da collezione?
"Pensiamo che debbano rimanere tali. Ci riteniamo vittime del vinile. Quando arrivavano le lacche delle nostre produzioni, dopo il primo ascolto, stentavamo a riconoscere il nostro stesso pezzo. Il vinile suonava malissimo. D'altronde era e resta un pezzo di plastica, il cui ascolto comporta mille passaggi. Molti pensano al vinile come a qualcosa di romantico. Ma è solo tecnologia di altri tempi. E la tecnologia di altri tempi sta nei musei. D'altronde, il contatto sensoriale con la musica avviene attraverso le orecchie nel momento in cui essa esce dagli altoparlanti. Poi il fatto che provenga dal vinile, dalla cassetta o dall'mp3 conta poco".
Il momento più folle di una carriera lunga e importante?
"Il triennio che va dal '92 al '95 è stato magico. Abbiamo creato un filone e, senza saperlo, abbiamo dato vita a un classico della prima musica trance come Yerba del Diablo, che resta una delle produzioni a cui siamo maggiormente legati. Eravamo gli unici, negli anni '90, ad esibirci dal vivo come una band. Gli Eiffel 65 hanno iniziato a farlo parecchi anni più tardi".
La discografia è a un passo dal collasso?
"È troppo legata a schemi del passato. L'auspicio è quello di una distribuzione più giusta dei diritti d'autore. La colpa non è stata della pirateria ma della poca lungimiranza di certi discografici. Di chi si è ostinato a tenere in vita un sistema superato. Non sta a noi artisti rigenerare tutto. Sorridiamo quando qualcuno si arrabbia per le accise della Siae su supporti come cd o chiavette. Scusate, quale altra via si doveva adottare per compensare il bollino Siae, che ormai è da tempo utopia pura?".
Di cosa bisognerebbe prendere atto subito?
"Del fatto, ormai chiaro, che una volta si facevano i tour per promuovere i dischi, mentre adesso si fanno i dischi per promuovere i tour. Ma se continuano ad uscire dischi brutti, che tour verranno fuori? E chi andrà avanti? Senz'altro noi vecchi. Che continueremo a proporre la musica del passato per tamponare il vuoto del presente. E, di questo passo, anche del futuro".