Il ricordo di Langone

Il vero Jannacci: con Giorgio Gaber, cattivo e punk

Giulio Bucchi

di Camillo Langone «A vun, du, tri, il titolo è...». Se ho imparato un po’ di dialetto milanese, se riesco a pronunciare i numeri quasi come li pronunciava Carlo Porta, lo devo a Enzo Jannacci e a nessun altro. Io che pure ho un quarto di sangue casalasco (nel senso di Casalmaggiore, provincia di Cremona, regione Lombardia), io che pure a Milano ci ho abitato e ci ritorno spesso e volentieri, senza Jannacci di milanese ne saprei quanto ne so di aramaico.  Perché come tutti o quasi tutti gli italiani nati durante o dopo il boom economico sono cresciuto nell’egemonia dell’italiano imposto dalla televisione e dalla scuola dell’obbligo: e perciò il glorioso milanese mi risulta lingua morta più o meno come l'etrusco.  Ormai Jannacci è parente di Orazio: poesia proveniente da un mondo geograficamente prossimo e storicamente lontanissimo. Davvero con lui mi sembra sia morto l’ultimo dei milanesi. Intendo l’ultimo dei milanesi capaci di parlare al cuore di tutta Milano, di tutto il Nord e, per le vie della musica, di tutta l’Italia (come migliaia di milanesi era di origini pugliesi, glielo si leggeva in faccia, nel cognome e in certe inflessioni che profetizzavano il terruncello di Diego Abatantuono).  Nel 2009 è uscito il disco in vernacolo di un singolare personaggio di nome  Edda, ex cantante dei Ritmo Tribale (nonostante il nome d'arte è un uomo e non c'entra nulla con Galeazzo Ciano né con Benito Mussolini): interessante, certo, ma chi l'ha ascoltato? Da qualche anno tutti o quasi tutti conoscono Davide Van De Sfroos: ma è del lago di Como (neanche di Como: di un paese sul lago) e cita Milano come fosse una remota metropoli. Insomma, Jannacci e poi più. Dopo di lui chi metterà in musica Porta Romana, Porta Vittoria e Porta Vigentina? Perché Jannacci oltre che una discografia rappresenta una toponomastica e la prima volta che ho sentito nominare Via Canonica è stato in una canzone che si intitolava, forse per esigenze di rima, Veronica.  Il dialetto non è solo nostalgia, è anche libertà. Jannacci negli anni Sessanta, e pure nei Settanta e Ottanta (considerando le canzoni ibride con testo italiano e screziature milanesi come la Silvano di «vun, du, tri» che citavo all’inizio), ha dato prova di una fantastica sfrenatezza espressiva.  Non discuto l’esistenza di uno Jannacci triste (esisteva eccome) e di uno Jannacci operaista (culminato in quel capolavoro che è Vincenzina e la fabbrica) ma voglio ricordare uno Jannacci cattivista e proto-punk, quello che in coppia con Giorgio Gaber nel 1960 cantava la ferocissima e schitarrante Una fetta di limone: «Sei ricca ma sei racchia / ma guardati allo specchio / non vedi che sei vecchia». Da quella canzone sortirono i Decibel di Enrico Ruggeri e mille rockband italiane che oggi dovrebbero incidere un album-tributo tutto jannacciano, per regalare alle giovani generazioni parole che i giovani autori, castrati dal politicamente corretto, non sono più capaci di scrivere.  Il bello è che alcuni di quei testi immoralisti Jannacci li scrisse con Dario Fo, oggi vecchio barbogio col ditino alzato che però, nel ’64, nei versi scatenati di La forza dell’amore, simpatizzava con un ottantenne all’inseguimento di una bella mora. Il tempo non dovrebbe passare mai.