Pansa e la ricetta contro l'Isis: cosa servirebbe
In questi giorni mi sono domandato più volte come si comporterebbe il governo italiano di fronte a un terrorismo stragista identico a quello che ha sconvolto la Francia. E la risposta che non ho potuto non darmi è sconsolante. Credo che il nostro governo esiterebbe molto a decidere misure di adeguata severità. Me lo fa supporre l' atteggiamento del nostro premier nei confronti della coalizione che sta nascendo per affrontare il pericolo mortale del Califfato nero. L' ha riassunta con efficacia il titolo di apertura che ci ha offerto Libero venerdì: «Il Bomba non bombarda». Il Bomba è Matteo Renzi. A lui interessa pavoneggiarsi di continuo alla tivù. Addentare qualsiasi centro di potere, per ultime le Ferrovie. Distribuire i nostri soldi in cambio di voti per lui. E snobbare l' Isis. Questa tetra realtà mi ha riportato alla memoria una figura troppo presto dimenticata: il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa. È stato l' uomo dello Stato decisivo per vincere la guerra contro il nostro terrorismo che negli anni Settanta era soprattutto quello delle Brigate rosse. Che cosa aveva di speciale Dalla Chiesa? Prima di tutto il senso del dovere, un' intelligenza tattica rara, una dedizione totale al proprio compito. Infine possedeva un carattere da prendere con le molle. E di questo mi resi conto sin dal mio primo incontro con lui. Era il 1974 e in quel momento Dalla Chiesa aveva 54 anni. Con un decreto del ministro dell' Interno, il democristiano Paolo Emilio Taviani, era stato costituito un Nucleo speciale antiterrorismo. La decisione si imponeva dopo il sequestro del magistrato Mario Sossi, rapito a Genova dalle Brigate rosse il 18 aprile di quell' anno e rinchiuso per più di trenta giorni in un carcere del popolo. A comandare la struttura, composta di carabinieri e poliziotti, venne destinato il generale. Nel settembre di quell' anno, Dalla Chiesa mise a segno un primo colpo: la cattura di Renato Curcio, il leader delle Br, e di Alberto Franceschini, uno dei suoi luogotenenti. La base del generale era una caserma di Torino, la Cernaia, e gli inviati dei giornali si precipitarono lì per farsi raccontare come fossero andate le cose. C' ero anch' io che allora lavoravo per il Corriere della sera. Dalla Chiesa non aveva nessuna voglia di parlare con noi. E aspettava l' occasione per liberarsi della nostra presenza. La prima domanda toccò a me. E gli chiesi di descriverci questi nuovi soldati dell' eversione. Dalla Chiesa m' incenerì con uno sguardo e replicò, furente: «Lei non può usare una parola sacra come soldato! Mi rifiuto di ascoltarla e non voglio più sentire certe bestialità! Signori, ritenetevi congedati!». E se ne andò, fingendosi scandalizzato. Me ne rimasi lì con il taccuino vuoto, alla prese con le maledizioni dei colleghi. Dalla Chiesa aveva compreso prima di tanti altri che i terroristi non bastava catturarli: si doveva rinchiuderli in carceri sicure. Ma nell' Italia degli anni Settanta di prigioni protette non ne esistevano molte. Il 9 maggio 1974 scoppiò una rivolta sanguinosa nel penitenziario di Alessandria. Sul posto si precipitarono Dalla Chiesa e il procuratore generale di Torino, Carlo Reviglio della Venaria. Ma i rivoltosi avevano delle armi e tutto si concluse con sette morti. In quel tempo pochi pensavano che le Brigate rosse fossero una banda numerosa e organizzata. Anche qualche magistrato s' illudeva. Catturato dal Nucleo speciale, per qualche sorprendente motivo Curcio venne rinchiuso nel carcere più ridicolo d' Italia: quello di Casale Monferrato, la mia città. Nel corso della giornata, i detenuti potevano rimanere fuori dalle celle e confabulare tra di loro. Il 18 febbraio 1975, una ragazza suonò il campanello della prigione e informò i guardiani che doveva consegnare un pacco. Era Mara Cagol, la moglie di Curcio, e si portò via il marito senza sparare un colpo. Però i carabinieri di Dalla Chiesa avevano già imparato in che modo comportarsi. Il 4 giugno 1975, la Cagol e due compagni sequestrarono l' industriale Vittorio Vallarino Gancia e lo portarono in un casolare sulle colline di Acqui. Una pattuglia della Benerita li individuò. Ne nacque un combattimento. Sparando, Mara coprì la fuga dei complici, uno di loro sembra fosse Curcio. Ma venne ferita e morì. L' ostaggio si salvò, però un tenente dei carabinieri perse un braccio. Sempre alla ricerca di carceri sicure, Dalla Chiesa mise gli occhi sull' Asinara, il penitenziario sardo. Era composto da dieci diramazioni dislocate in tutta l' isola. La più nota era quella di Fornelli, sorta all' inizio del Novecento per ospitare una cinquantina di detenuti che allevavano del bestiame. Nel corso della Seconda guerra mondiale era diventato una ricovero per ammalati di tubercolosi, un' epidemia diffusa in tutta l' isola. Dopo la metà degli anni Settanta, furono rinchiusi a Fornelli il leader brigatista Curcio, Franceschini e altri militanti arrestati. Ma la guerra al terrorismo rosso era ancora molto lontana dal concludersi e in totale durò quasi vent' anni. Fu un conflitto senza quartiere, con un alto numero di vittime e di feriti, cristiani che venivano definiti con una parola orrenda: gambizzati. Era fatale che le forze dell' ordine, primi fra tutti i carabinieri di Dalla Chiesa, non andassero per il sottile. Accadde così a Genova nel marzo del 1980, un anno e due mesi dopo l' assassinio di Guido Rossa, l' operaio comunista che aveva mostrato il coraggio di denunciare un «postino» brigatista che operava all' interno dell' Italsider. Grazie al primo pentito, Patrizio Peci, già capo della colonna di Torino, gli uomini di Dalla Chiesa erano riusciti a individuare la base genovese delle Brigate rosse, in via Fracchia. Fecero un' incursione alle quattro di mattina del 22 marzo 1980. I terroristi risposero al fuoco e vennero uccisi tutti e quattro. Tra loro c' era una insegnante di francese, poco più che trentenne. Ci furono molte polemiche e in tanti sostennero che gli uomini del generale aveva compiuto degli omicidi a freddo. Ma Dalla Chiesa se ne infischiava del gran parlare che si faceva contro di lui. Era un militare, aveva il culto della divisa e soprattutto del proprio dovere nei confronti dello Stato e dei cittadini. Alzava le spalle quando i giornali di sinistra, i fanfaroni della Casta rossa, i politici sedicenti democratici si accanivano a insultarlo. È un golpista. Un carrierista ambizioso. Un generale autoritario, al servizio del capitalismo più bieco. Entrerà in politica e farà sfracelli. Lo vedo mentre alza le spalle e sorride sotto i baffi, sempre ben curati e via via più grigi. Ma neppure lui poteva immaginare come avrebbe concluso il proprio percorso di uomo coraggioso e per bene. Rimasto vedovo, si risposò con una signora ben più giovane di lui. Gli avevano dato un incarico da far tremare i polsi a chiunque: diventare il prefetto di Palermo e organizzare una nuova guerra, questa volta contro il potere mafioso. Aveva iniziato la carriera in Sicilia e intendeva concluderla con onore. Ma la sera del 3 settembre 1982, mentre rientrava in prefettura con la moglie, Emanuela Setti Carraro, un commando di Cosa Nostra lo uccise insieme alla signora e all' autista. Era una fine che sembra scritta per un film. Dove l' eroe non invecchia, cade nell' ultima battaglia e viene dimenticato dagli italiani che devono anche a lui la libertà. Giampaolo Pansa