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Sergio Marchionne, la tragica ricostruzione sulla morte: la vera ragione per cui se ne è andato

Davide Locano
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È morto un genio, un essere intelligentissimo, traboccante di infinito carisma. Lo dicono tutti. Nessun dubbio. Sergio Marchionne era un Mozart, un Leonardo Da Vinci nel campo dell'imprenditoria del terzo millennio. Ma non è diventato Sergio Marchionne fino a morirne perché aveva, nel suo ramo, le qualità di un Mozart o di un Leonardo, ma perché come i due geni della musica e dell'arte ha giocato le sue qualità in un ostinato a tu per tu con la fatica, vedendo l'alba non dal letto ma dal suo banco di lavoro, mettendoci la forza di volontà, la consapevolezza di una responsabilità, persino il dovere di essere se stesso per la sua famiglia, la sua gente, l'Italia. Non è che sto tirando a indovinare. In questi giorni sono state messe in fila moltissime frasi di questo manager italiano (che si vantava di avere il passaporto italiano, si badi). Non confezionava aforismi come giochi di parole: sono preziosità estratte dalla sua attività senza pigrizia, eppure carica di sentimenti. Non era un marchingegno programmato sotto la voce «profitto», al quale infatti persino si ribellava, sostenendo che il capitalismo sarebbe sopravvissuto solo rinunciando al totalitarismo dell'utile. Strano ma vero, viste anche le scandalose critiche dei vescovi italiani mentre stava sul letto di morte. Leggi anche: La premonizione di Marchionne: quel messaggio, poco prima di morire La sua non era una intelligenza artificiale, che macinava persone per la floridezza di aziende cannibali. Ha avuto parole sincere di ammirazione per “le tute blu”. Sono invidiosi dementi quanti gli rimproverano una vita nel paradiso svizzero baciata dalla fortuna. Fortuna? Lasciamo perdere. È morto a 66 anni, non si è goduto un soldo. La malattia ha trovato un corpo disarmato perché aveva combattuto la buona battaglia per troppi anni. Se n'è fregata del genio e del carisma, quelli sono così alti che non li abbranca: ma i polmoni sfiatati, le arterie e il cuore consumati dalla tensione, sono state pascolo facile per la fame della Bestia. E la morte è arrivata scivolando rapidissima sui pavimenti troppo lustri e asettici di quell'ospedale di Zurigo. Fortunato? Sergio non ha avuto il bene neppure di potersene andare liberamente, svincolato da responsabilità terrene. Ma no: ha dovuto aggravarsi irrimediabilmente proprio, guarda caso, a borse chiuse, consentendo alla ditta di parare l'offensiva nemica. Non sappiamo se avesse predisposto questa tempistica in qualche carta. Ma di certo avrebbe accettato il destino di chi si sacrifica persino da moribondo per il bene della causa, che non coincide con gli utili aziendali, ma con il benessere della sua creatura: la comunità di uomini che ha guidato. LA LEZIONE Bisogna imparare questo da Marchionne. Questa dedizione. Noi non possiamo aggiungere alle nostre modeste vite il suo quoziente intellettuale, il gusto artistico o il fascino che emanava al comando. Sono virtù quelle che non si possono plagiare con il copia e incolla. Si devono riconoscere con lealtà, e fa piacere che il suo rivale giurato, la Fiom (il sindacato metalmeccanici della Cgil) abbia finalmente confessato i meriti dell'avversario. Quel che possiamo attingere per noi, mettendoci alla sua scuola con umiltà, è la forza morale di Marchionne, la sua energia interiore. Quella grinta spirituale per cui Sergio la faceva corta con la voglia di godersi il potere e la meritata grana, rincorrendo posizioni via via più remunerate, come pure è normale e persino etico. Lui faceva prevalere il criterio affettivo: era capace di voler bene. Ha detto: «L'Italia è un Paese che deve imparare a volersi bene, deve riconquistare un senso di nazione». Persino gli americani liberal del Washington Post e del New York Times gli perdonano di essere stato un piccolo italiano di origini abruzzesi. In via del tutto eccezionale, dimenticano che Marchionne da obamiano si era fatto trumpiano (perché la Fiat «è sempre stata filogovernativa, voi scegliete, noi ci adattiamo»). Scordano gli stereotipi, si abbandonano all'esaltazione, e dipingono le sue gesta come quelle di un Ercole spropositato: «Ha afferrato per i capelli due moribondi (Fiat e Chrysler) che stavano annegando, li ha salvati, e li ha trasformati in unico gigante». Il Wall Street Journal compone un'elegia capitalistica: ha costruito «una macchina per fare soldi, piena di salute». HA PERSO LA SALUTE Il problema è questo: che Sergio quella salute, per impedire la caduta nel baratro di due aziende e di centinaia di migliaia di famiglie, l'ha persa. Il Washington post dice una cosa molto americana e che ci piace molto. È stato merito, scrive, «della sua forza di volontà». Ecco: questo è ciò che possiamo attingere dalla figura di questo grande italiano, qualcosa senza di cui non ci salveremo. È il lavoro, l'amore per il lavoro come costitutivo della sua natura di uomo. Non un lavoro stupido da criceto che gira la ruota perché non sa fare altro. Ma perché è la nobiltà della razza umana, e italiana in particolare, il lavorare bene, con cura, per il pane e per la bellezza. Eh sì. Il lavoro, il suo modo di intenderlo, di giocare se stesso nell'impresa impossibile di impedire la rottamazione di due aziende polverose di gloria antica, ma soprattutto di preservare un'esistenza dignitosa per centinaia di migliaia di famiglie impaurite del futuro; questa battaglia senza tregua gli ha succhiato la vita. Questo va detto. Tacere sarebbe un modo per non imparare niente da Marchionne, infilandolo nella nicchia delle divinità scese in terra, e perciò inimitabili. Certo, ognuno di noi è unico, non c'è la macchinetta che fabbrica i Marchionne, e se c'è si è rotta con la sua morte. Il suo esempio invece no. Dipende da noi. Trascrivo alcune frasi, uscite dal suo petto con semplicità, qualche volta persino lamentandosi con un «non ce la faccio più» che dovrebbe farci compagnia nelle nostre sfide. Io scelgo queste. «Mi alzo ogni giorno alle 3 e 30. La sera vado sempre a letto presto, mi corico alle 10. Non sono un ragazzo». Questi sono orari da monaca di clausura. Ora è di moda il riccone che tira l'alba su qualche isola, dopo essersi rasato e tatuato il petto. Invece Sergio lungo tutti i suoi anni ha visto l'aurora tingersi di luce mentre era già da ore al banco del suo impegno. Il Wall Street Journal lo ha salutato per questo come “workhaolic”, uno stacanovista. Sbaglia. Gli stakanovisti lo fanno per il record, il Guinness. Lui per un gusto. «Siate come i giardinieri: investite le vostre energie in modo che qualsiasi cosa facciate duri una vita intera e anche di più». Ancora: «Se continuavamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo». Senza commento. Infine: «Se vuoi fare questo lavoro davvero bene, ti consuma. Sono stanco. Voglio fare qualcos'altro». Pensava di lasciare la Fiat nel 2019, e di restare alla Ferrari, per pura epica agonistica. Aveva detto dopo la sconfitta delle “rosse” a Monza nel 2017: «Mi girano le balle, dobbiamo raddoppiare l'impegno e togliere il sorriso dalla faccia di questi (della Mercedes)». Poi pensava di fare il giornalista, magari di salvare la categoria. Impossibile. Sarebbe stato un troppo vasto programma anche per lui. Riposa in pace, grande Sergio. di Renato Farina

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