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Covid, Giuseppe Remuzzi: "È un'infiammazione, ecco come si combatte. Ma la terza dose di vaccino è necessaria"

Pietro Senaldi
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E se fosse tutta colpa dell'uomo di Neanderthal, quell'essere estinto 50mila anni fa ma che ha lasciato tracce di sé mediamente nel 3% del patrimonio genetico di ognuno di noi? Peloso e in carne, per proteggersi meglio dal freddo, proveniente dalla Persia, dalla Siberia e dalla Croazia, sviluppava reazioni violente quando entrava in contatto con i virus che l'homo sapiens dal quale discendiamo gli trasmetteva. «Poiché la morte per Covid-19 arriva in seguito a un impazzimento del nostro sistema immunitario, che manda in tilt l'intero organismo, stanno studiando il dna degli abitanti della Bergamasca, in particolare di Albino, Alzano e Nembro, dove il Corona ha fatto una strage, per capire se nel loro patrimonio genetico ci sono tracce maggiori dell'uomo di Neanderthal rispetto alla media. L'eccesso di risposta infiammatoria che hanno avuto rispetto al virus lo farebbe supporre». Di questo, ma non solo, tratta il libro di Giuseppe Remuzzi, direttore dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri nonché ematologo e nefrologo, luminare di fama mondiale, ormai da quasi due anni in prima linea nella battaglia a quello che, da presidente Usa, Donald Trump chiamava «il virus cinese». E c'è del vero in questa sprezzante definizione, non solo perché il Corona arriva da Wuhan ma anche perché il Covid-19 non è una novità. «C'è un precedente che illustro nel libro» (Le impronte del signor Neanderthal, edizioni Solferino, 17 euro) racconta Remuzzi. «Ventimila anni fa, proprio in Cina, si sviluppò una terribile epidemia. Fu devastante, durò moltissimi anni e ancora oggi se ne possono trovare tracce in cadaveri di individui vissuti trenta generazioni fa. Allora però non c'erano treni e aerei e la catastrofe rimase circoscritta». Già, ma questo significa che non è poi vero che il virus prima o poi si spegne da sé... «Ai tempi non c'erano neppure i vaccini», rassicura l'autore, che non ha scritto un saggio e neppure un romanzo, ma ha collezionato una trentina di scoperte e le ha messe a disposizione del lettore con linguaggio curioso, semplice e diretto, una per capitolo. «Io ho pubblicato sulle maggiori riviste scientifiche del mondo» scherza il dottore, «ma il complimento che più mi ha emozionato è quando Feltri disse di un mio articolo: "Remuzzi, il quale, non essendo un giornalista, bensì uno scienziato, scrive benissimo...».

Professore, perché dopo due anni di pandemia passati in prima linea, un libro che tratta il Covid solo marginalmente?

«Volevo fare della divulgazione scientifica, non prendere posto nell'agone. Io credo che noi medici dobbiamo iniziare a comunicare».

Mi pare non facciate altro. In tv non ci sono che camici bianchi...

«Non confonda la scienza con i talk show. Ci sono trasmissioni fatte apposta per far litigare le persone, con i conduttori che scelgono i profili più divisivi, bianco contro nero, vince chi è tranchant e se insinui dubbi non fai audience. Invece la medicina è dinamica, è un'evoluzione continua di conoscenze che si contraddicono. Si va avanti per dubbi e tentativi».

 

 

 

È stato sbagliato qualcosa nella comunicazione sul Covid?

«Non è stato fatto capire che tutto quel che si dice sul virus ha valore in quell'esatto momento. Quel che è vero oggi può risultare fallace domani. E poi in medicina non esistono verità assolute: è sbagliato che chi è favorevole alla profilassi dica che i vaccinati non si contagiano, perché poi i fatti lo smentiscono e le iniezioni perdono credibilità. Basta dire che si ammalano meno gravemente e sono meno contagiosi. Già questo fa capire come il vaccino sia stata la soluzione. "L'obiettivo del vaccino è di prevenire una malattia che richieda un intervento medico, non di prevenire l'infezione. Sarebbe troppo chiedere al vaccino di prevenire l'infezione", ha detto recentemente il dottor Chen, un membro di quello che noi chiamiamo CTS presso il Center for Disease Control degli Stati Uniti».

Quindi continuiamo a parlare a vanvera?

«Solo le conoscenze suffragate da studi sono valide, ma anche quelle non sono la Bibbia. E poi non si può pretendere troppo dai pazienti: vanno dati messaggi semplici e chiari, che non si contraddicono. Il più importante è far capire loro che i malati non sono tutti uguali. Se il virus aggredisce Colin Powell, che ha 84 anni, il diabete, è sovrappeso, ha un mieloma multiplo e si sottopone a terapie che indeboliscono il sistema immunitario, ci sta che muoia anche se vaccinato».

Per questo che ci sono i no vax e sono nate teorie complottiste?

«Io credo che molti problemi derivino dal fatto che i media hanno cercato la notizia, enfatizzando qualsiasi sciocchezza. Anche a questa vicenda delle proteste di Trieste, è stata data troppa importanza solo perché faceva clamore. A chi dice che col vaccino si è andati troppo in fretta bisogna spiegare che sì, l'hanno fatto in dieci mesi ma studiavano soluzioni per Ebola e tumori basati su vaccini a mRNA dal 2013».

Però i no vax ci sono...

«Non sono poi così tanti, se l'87% degli italiani ha fatto almeno una dose, e quindi farà a breve la seconda. Enfatizziamo le notizie positive, non i pochi casi sfortunati. Diciamo che uno studio svedese fatto su più di un milione di persone e 800mila familiari ha visto che più cresceva il numero di persone immunizzate più calava il rischio di malattia grave e ospedalizzazione nei membri della stessa famiglia che non avevano ricevuto il vaccino. Una riduzione importante, dal 45% al 97%».

Se avessimo meglio comunicato non avremmo avuto i no vax?

«C'è poco da fare con chi non si fa convincere dall'evidenza dei fatti. Se il vaccino ti spaventa più di restare chiuso a casa tre mesi in lockdown o morire solo e intubato, non c'è comunicazione che possa convincerti. La verità è che l'uomo è strano e ognuno ha la sua testa. Guardo il bicchiere pieno al 90%: se nove su dieci si sono vaccinati, significa che il messaggio è passato».

Qual è stata la svolta della pandemia?

«Il generale Figliuolo. Ha rivoluzionato l'organizzazione inserendo una novità semplicissima: se avete problemi, telefonatemi, io ho un'organizzazione che riesce a mobilitare le Asl. La chiave di volta sono stati esercito e Protezione Civile».

Come lei aveva chiesto un anno fa dalle colonne di "Libero"...

«Tempestività e logistica sono state le chiavi del successo».

 

 

 

 

Ci toccherà la terza dose?

«Già le somministrazioni quotidiane della terza dose superano quelle della prima. Io, come medico, l'ho già fatta e ritengo che debbano farla tutti gli anziani. Si parta dagli ultraottantenni fino ad arrivare ai sessantenni. Più sei anziano e debole, meno anticorpi produci e più rapidamente il vaccino perde efficacia; in genere, dopo otto mesi la protezione cala».

Arriveremo a farla ogni sei mesi, come in Israele?

«Discorso prematuro. È stato per esempio dimostrato che la terza dose ha un'efficacia maggiore e più duratura: in Israele hanno verificato che la risposta anticorpale è superiore rispetto a quella delle due dosi precedenti e si riducono anche malattia grave e necessità di ricovero in Ospedale. Per ora tuttavia mi limiterei ai sessantenni anche se l'FDA sta pensando di raccomandarlo fino ai 40 anni. Comunque la terza dose c'è già per molte malattie, come pertosse, difterite, pneumococco, tetano, poliomielite e certe volte consente di non avere più problemi per tutta la vita».

Si verificherà una carenza mondiale di vaccini?

«È l'ultimo dei problemi. Moderna avrà tre miliardi di dosi disponibili entro fine anno, e così Astrazeneca. Nel 2022 arriveranno altri 6-10 miliardi di dosi. Non c'è nessun problema di approvvigionamento, e neppure è vero che se ci vacciniamo noi tre volte poi non resta nulla per il Terzo Mondo. Il problema dell'Africa è la logistica: il virus viaggia più veloce dei camion, per distribuire il vaccino anti -vaiolo in tutto il Terzo Mondo ci abbiamo messo 29 anni. Altro problema sono i prezzi: le fiale vanno vendute a prezzo di costo e vanno tolti i brevetti, almeno per un po', creando per tutti la possibilità di produrle».

Quindi entro il 2022 l'umanità potrebbe raggiungere la cosiddetta immunità di gregge?

«L'immunità di gregge non si avrà mai, l'era in cui viviamo potrebbe essere quella del Coronavirus. Ma non per forza sarebbe un dramma: se tutti si vaccinassero, il virus avrebbe difficoltà a muoversi e infettare, perfino se arrivassero delle varianti. Certi anticorpi monoclonali sono capaci di legarsi alla parte del virus che non muta. Quando saranno disponibili, non avremo del Corona».

Non possiamo già sentirci tranquilli, tra vaccini e cure più efficaci rispetto al marzo 2020?

«Il vaccino è la prevenzione, le cure il rimedio. La chiave perché la cura abbia effetto è la precocità: prendere la malattia nei primi dieci giorni, prima che l'infezione scenda dal naso nei polmoni». Tachipirina e vigile attesa quindi non è una buona idea? «Non critico il protocollo del governo, che si è comportato come quello degli altri Paesi. La verità è che ci sono oggi diverse terapie anti-Covid che vengono usate con successo negli ospedali italiani».

Lei quale adotta?

«Il Covid è un'infiammazione, il segreto è spegnerla sul nascere. Aspirina, nimesulide, celecoxib in genere garantiscono un miglioramento in tre-quattro giorni. Se non basta, si passa al cortisone e all'eparina. Con gli antinfiammatori il Covid si può curare a casa nella stragrande maggioranza dei casi».

Perché il ministero non adotta il suo metodo?

«Noi non lo abbiamo chiesto, non ci sono studi scientifici che lo consentono».

Abbiamo un protocollo nazionale ma ogni ospedale usa una propria terapia non ufficiale?

«Ripeto, la chiave è fermare l'infiammazione, e ci sono tanti modi per farlo».

Per esempio, allo Spallanzani di Roma, il professor Vaia usai monoclonali...

«Efficaci ma al momento molto cari e vanno rigorosamente somministrati in ospedale. Però la medicina fa passi avanti a ritmo incessante. Per esempio si è scoperto che c'è un comune sciroppo per la tosse che contiene Bromexina che ha effetti molto interessanti: testato su un'ottantina di persone, divise in due gruppi, tra chi lo ha assunto non ci sono stati morti e si è avuta una sola terapia intensiva contro tre decessi e cinque ricoveri tra chi non lo aveva ricevuto. È stato scoperto anche di recente che un preparato anti-asma a base di cortisone riduceva del 90% i ricoveri in ospedale...». 

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