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Luca Ricolfi, incorona Giorgia Meloni: "La sinistra è legata al potere, perché è meglio la leader FdI"

Pietro Senaldi
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«Raramente ho letto tante sciocchezze e tanti travisamenti delmio pensiero come dopo il mio intervento alla convention di Fratelli d’Italia (mi hanno persino accusato di indulgenza pro-Putin). Perciò la prima cosa che vorrei dirle è che sono profondamente grato a Libero per la possibilità che mi offre di dire quel che penso effettivamente, al di là delle interpretazioni e dei fraintendimenti. Dunque, cominciamo da come sono andate le cose. Un paio di mesi fa Giorgia Meloni mi ha chiesto se avevo idee da sottoporre alla loro convention, io ne avevo fin troppe. Avrei parlato volentieri di politicamente corretto (e di censura), di politiche fiscali, di scuola e università.
Alla fine, avendo solo 10 minuti a disposizione, ho dovuto scegliere, e ho puntato su scuola e università».

Perché?
«Mi stuzzicava l'idea di esporre la pars construens del discorso che, da anni, Paola Mastrocola e io facciamo sui problemi dell'istruzione e della trasmissione del patrimonio culturale (la pars destruens sta nel nostro libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della diseguaglianza, uscito qualche mese fa con La nave di Teseo)».

La scuola è sempre stata una riserva culturale della sinistra in Italia. Dove ha fallito?
«Le riforme democratiche e progressiste, specie dopo il 1969, e massimamente dal 2000, hanno fallito su tutta la linea perché l'abbassamento del livello degli studi, coscientemente perseguito in nome dell'inclusione, ha prodotto esclusione, dispersione, nuove diseguaglianze. Hegel la chiamava eterogenesi dei fini, i sociologi preferiscono parlare di "conseguenze non intese", o di "effetti perversi" dell'azione sociale. Nel nostro libro noi mostriamo, anche con strumenti statistici, che l'abbassamento dell'asticella secerne diseguaglianza. Se adottiamo lo schema di Bobbio (sinistra = uguaglianza, destra = disuguaglianza) è inevitabile concludere che negli ultimi 50 anni i politici progressisti hanno fatto politiche di destra. Sempreché, naturalmente, che cosa sia di sinistra e che cosa sia destra lo stabiliamo in base alle conseguenze che produce, non alle intenzioni di chi la impone».

Ma lei non è, o era, di sinistra?
«Certo che lo sono. Lo sono sempre stato, oggi lo sono più che mai. Il problema è che "la sinistra non è più di sinistra", come ebbe a notare già una ventina di anni fa Alfonso Berardinelli. Quindi chi tiene saldi alcuni principi di sinistra, tipo la difesa dei ceti popolari, la lotta contro la censura, la parità delle condizioni di partenza, deve amaramente ammettere che la sua parte politica, almeno nella sua componente riformista, li ha clamorosamente traditi».


Ecco la risposta alla domanda sottesa all'inizio di questa conversazione, che è cosa ci faceva il sociologo Luca Ricolfi alla convention della Meloni, incarnazione della destra in Italia, l'unica donna alla quale la Boldrini vorrebbe togliere potere anziché darlo. Una presenza che il padre della Fondazione Hume ha pagato subendo critiche ad alzo zero dagli ambienti progressisti. D'altronde, più si restringe il campo largo di Letta, che è un progetto di alleanze politiche, o forse più semplicemente di somme algebriche di forze in crisi di rappresentanza unite dallo scopo di tenersi stretto il potere, più si allarga il campo di Giorgia. Accusata da chi governa con Speranza, Di Maio, Orlando e Lamorgese di non avere classe dirigente (e fingiamo di aver dimenticato Toninelli, De Micheli, Bonafede e Azzolina), la leader di Fratelli d'Italia ha aperto i lavori del partito alle migliori intelligenze d'Italia, senza badare più di tanto alle loro opinioni politiche.

Da sociologo: sta cambiando qualcosa nei valori fondativi e nelle battaglie della destra e della sinistra?
«Quello che, per gli osservatori imparziali, è fuori discussione è che la sinistra main stream è diventata bigotta, intollerante, insensibile alle istanze dei ceti popolari, ossessivamente fissata su migranti e diritti civili (rivendicazioni LGBT, eutanasia, ecc.). E noti che questa deriva la descrivono e denunciano gruppi e osservatori di super-sinistra: in Francia il filosofo Jean Claude Michéa, in Italia - ad esempio - Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista. Per non parlare delle preoccupazioni di tante femministe, in radicale dissenso con le teorie gender e le rivendicazioni del mondo trans. Quanto alla destra, il discorso è complicato perché ci sono tre destre. Forza Italia e Lega non innovano granché, restano tutto sommato partiti anti-tasse, anti-migranti, anti-censura».

E Fratelli d'Italia?
«Fratelli d'Italia è in evoluzione, da almeno 8-10 anni. Mi colpì a suo tempo (era il 2014) la decisione di Giorgia Meloni di sottoscrivere una proposta di sinistrissima della fondazione Hume (si chiamava maxi-job), che capovolgeva le politiche fiscali liberiste, puntando tutte le carte su politiche di ispirazione keynesiana (decontribuzione per le imprese che aumentano l'occupazione). Mi parve una (sorprendente) mossa di sinistra, non a caso sottoscritta anche da Susanna Camusso, allora segretaria della Cgil. E ancora di più mi ha colpito, nella relazione introduttiva di Giorgia Meloni alla convention di Fratelli d'Italia, ascoltare una appassionata difesa dell'uguaglianza delle condizioni di partenza come precondizione del merito, e come strumento essenziale per far ripartire l'ascensore sociale. È come se i due principali partiti italiani si fossero scambiati i ruoli. Al Pd non di rado piacciono cose che fino a ieri avremmo definito di destra, a Fratelli d'Italia talora piacciono cose che eravamo abituati ad associare alla sinistra».

Perché c'è stato questo scambio di ruoli?
«È un discorso lungo e complicato, che ho cominciato ad affrontare in Sinistra e popolo, (Longanesi 2017) e che sto sviluppando in un nuovo libro. Qui vorrei però menzionare un aspetto particolare, su cui sto riflettendo: non sarà che stare quasi sempre al governo ha reso il Pd iper-sensibile alle istanze dell'establishment, e stare quasi sempre all'opposizione ha lasciato più libertà di movimento, ma anche di elaborazione politica, al partito di Giorgia Meloni?»

C'è un'intolleranza della sinistra verso il pensiero alternativo, che viene pertanto criminalizzato?
«Il guaio della sinistra è che, quando adotta una posizione, non riesce a pensarla come una posizione politica fra molte possibili, ma tende a considerarla alla stregua di una scelta etico-morale: di qui il Bene, fuori di qui il Male. Che si tratti di migranti, diritti civili, tasse, campagna vaccinale, guerra in Ucraina, la postura del principale partito di sinistra è sempre quella: noi siamo illuminati, voi siete opportunisti, disertori, retrogradi, incivili, disumani. L'intolleranza è una conseguenza logica della credenza, profondamente illiberale, di avere il monopolio del Bene».

Perché la sinistra non vuol più rappresentare i poveri?
«Non so se non vuole, quel che è certo è che non ci riesce. Non credo vi sia una singola ragione, se non altro perché il distacco dai ceti popolari è iniziato almeno 30-40 anni fa, più o meno dopo la morte di Berlinguer. Fra i fattori strutturali che hanno aiutato questa involuzione però ne metterei in evidenza almeno due: la terziarizzazione, che ha drasticamente ridottole dimensioni della classe operaia industriale, e l'arrivo massiccio dei migranti, che a una sinistra riformista molto imbevuta di cristianesimo sociale sono parsi i veri "ultimi" di cui occuparsi».

Lei parlò di società signorile di massa: ora cosa siamo diventati e cosa diventeremo?
«Siamo una società in cui la maggior parte della popolazione abile al lavoro non lavora, i consumi sono ancora opulenti, l'economia ristagna. Consumo, gioco, intrattenimento, socializzazione, cura di sé, sono diventati i nostri imperativi, il lavoro e lo studio sono tollerati come inconvenienti da sopportare. Dopo il Covid e lo scoppio della guerra in Ucraina dovrebbe essere evidente che il nostro futuro è fatto di minore reddito, minori consumi, e - temo - anche minore libertà. Lo sforzo dei governanti è, comprensibilmente, di farci credere che non è così».

Si sta facendo il funerale del sovranismo: è prematuro?
«Mah, bisognerà anche intendersi, prima o poi, su che cosa voglia dire sovranismo, e soprattutto su che cosa sia il suo contrario. Io non vedo affatto bene un'evoluzione dell'Europa in cui ogni Paese sia abbarbicato all'interesse nazionale, come prospettano i conservatori con l'idea di un'Europa Confederale. Però, al tempo stesso, non posso non vedere che noi, oggi, abbiamo sia i danni del sovranismo (Francia, Germania, Ungheria difendono con le unghie e coi denti i loro interessi, noi no), sia il peggio dell'europeismo (l'Europa non è stata minimamente in grado di tutelare l'interesse europeo, come la crisi energetica sta mostrando in modo lampante)».

La guerra rafforza o indebolisce la Ue?
«La indebolisce, perché mostra due cose: che non siamo affatto uniti, e che siamo a rimorchio degli Stati Uniti».

Ritiene che l'opinione pubblica italiana possa reggere a lungo la guerra?
«No, l'opinione pubblica è semplicemente stata tenuta all'oscuro delle conseguenze economico-sociali della guerra».

È una cosa nuova quella uscita dalla tre giorni milanese della Meloni dello scorso fine settimana?
«Mi pare di sì, perché già solo il fatto di parlare di contenuti, e farlo anche con esponenti più o meno dichiarati della sinistra, è un atto di grande apertura. Ma in questo giudizio sono influenzato da una mia idea personale, che molti non condividono: e cioè che quello del rapporto con il fascismo sia un non-problema. O meglio un problema che è stato archiviato 27 anni fa da Fini, con la svolta di Fiuggi. Chiedere ulteriori abiure sarebbe come se, alla fine degli anni '80, qualcuno avesse chiesto ai socialdemocratici tedeschi di ribadire il loro distacco dal comunismo, avvenuto a Godesberg nel 1959».

Quali differenze trova con il progetto originario del centrodestra di Berlusconi del 1994?
«Almeno due. Primo, la politica fiscale: liberista quella di Berlusconi, keynesiana (cioè pro-occupazione) quella di Meloni. Secondo, scuola e università: aziendalista la visione di Berlusconi (ricordate le "tre i": inglese, internet, impresa), egualitaria e meritocratica quella recente di Fratelli d'Italia (almeno a giudicare dalla relazione di Paola Frassinetti, responsabile scuola del partito)».

La forza di FdI è di non essere una destra liberale, visto che l'Italia è Paese allergico al capitalismo spinto e al liberalismo?
«Sì, è uno dei punti di forza».

Berlusconi si è orientato su Salvini per garantire un futuro a Forza Italia. È pensabile che, in nome del pragmatismo che lo contraddistingue, cambi cavallo?
«È pensabilissimo, Berlusconi è imprevedibile. Ma sarebbe un segno di debolezza». 

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