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Anna Prouse e la guerra in Iraq: "Dai campi da tennis a quelli di battaglia"

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Daniele Dell'Orco
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Per accettare di scrivere la sua autobiografia, Anna Prouse ha dovuto per prima cosa superare la riservatezza, il disturbo post traumatico da stress, se stessa. Ma a questo «la donna dalle mille vite» è abituata. Promessa mancata del tennis, è diventata dapprima una giornalista, poi una delegata della Croce Rossa scelta per dirigere un ospedale da campo a Baghdad e infine un membro del Cpa (Coalition Provisional Authority), il governo provvisorio legittimato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu per rovesciare il regime di Saddam Hussein. Nel mezzo, è scampata a tre attentati, ad una fatwa, alle realtà più complesse e pericolose di un Medio Oriente in fiamme, ad un cancro al cervello che pensava di essere incurabile. Prima di conoscere Anna Prouse. La storia della sua vita, Della mia guerra, della mia pace (Harper Collins, 414 pp.,19 euro) arriva in libreria.

Come mai proprio adesso?
«Dieci anni fa avevo iniziato a scrivere dell’esperienza in Iraq. Ero arrabbiata. Volevo raccontare al mondo che si meravigliava della comparsa dell’ISIS che non si trattava affatto di un fenomeno uscito dal nulla. Lord Weidenfeld (di Weidenfeld and Nicholson, prestigiosa casa editrice britannica, ndr), però, deve aver capito che dietro di me si nascondeva qualcosa e voleva che raccontassi la mia storia. Semplicemente, non ero pronta. Poi ho avuto il cancro...».

Ma lei aveva visto la morte in faccia altre volte, cosa è cambiato?
«Che è arrivata quando non la stavo più “cercando” Mi ero già trasferita negli Stati Uniti con mio marito, nella Silicon Valley. Praticamente l'antiguerra. Ho imparato che la morte arriva quando non l'aspetti. I medici americani mi dissero: “Non c’è nulla da fare”. Poi, invece, un’operazione di tipo sperimentale a Stanford mi ha salvato. Ho fatto un esame di coscienza e ho pensato che anche alcuni aspetti della mia vita che non si conoscevano avrebbero potuto ispirare qualcuno».

Il rapporto con una madre abusiva, quello tra amore e carriera, quello tra altruismo ed egoismo...
«Il messaggio tra le righe di questo libro è: perché non puoi fare qualcosa per gli altri che faccia stare bene anche te stesso? In questo senso l’Iraq mi manca. Mi manca lo spirito di squadra, il problem solving, la sensazione di poter aiutare persone ad avere un futuro migliore. Aiutando loro, aiutavo anche me».

Ma non pensa che le organizzazioni benefiche stiano perdendo smalto? Nel Donbass “filorusso” non c'è nessuno per paura delle accuse di “putinismo”. Esiste ancora l’aiuto purché sia?
«È una tendenza che ravvisai già in Iraq. L’ospedale dove misi in piedi questa unità mobile era in una zona protetta che organizzai per permettere a realtà come Medici senza frontiere di venire. Mi dissero che stavo dalla parte degli 'invasori' perché la struttura era americana. Risposi: “Non potete semplicemente fare del bene a chi soffre?”» 

Tra l’altro lei criticò molto le scelte della Casa Bianca...
«Ero contraria all’intervento, ancora oggi sono molto combattuta. Parlando, ascoltando e vedendo certe cose ho capito cosa fosse davvero la vita sotto Saddam. Ma in guerra la filosofia conta il giusto. L’intervento c'è stato, per anni milioni di persone avrebbero sofferto. Agli innocenti che ci sono dentro chi è l'invaso e chi è l'invasore frega il giusto. Hanno bisogno di essere assistiti, salvati, curati, come tutti. Ormai invece tutto è tifo da stadio. Successe anche con i giornalisti, le due Simone (Pari e Torretta, ndr)e Giuliana Sgrena mi consideravano “dalla parte dei cattivi”, mentre loro pensavano di avere chissà quali entrature con gli iracheni perché criticavano gli americani. Vennero rapite, e per questa presunzione qualcuno morì (l’agente del Sismi Nicola Calipari, ndr). Un conto sono gli ideali, un conto è la realtà. La guerra non è tifo, e non è uno spettacolo. Anzi. Le più gravi nefandezze accadono proprio a riflettori spenti. In Iraq tre anni dopo l’inizio dell’invasione c'erano più morti che tre anni prima. Ma nessuno ne parlava più. Smisi di farlo anche io. Lavoravo e basta». 

Lei è un architetto di vita in luoghi di morte. Cosa la spaventa dei conflitti attuali?
«Non è che mi spaventa, mi terrorizza che non si stia parlando del dopo. C'è chi fa politica, chi campagna elettorale, chi diplomazia. Ma sa cosa si dovrebbe fare fin da subito? Parlare di mattoni». 

Mattoni?
«Pensi a Gaza, la guerra avrà tre filoni: 1) Israele dovrà “dichiarare vittoria”; 2) ci sarà il “filone diplomatico”; 3) bisognerà operare le ricostruzioni in loco. Altrimenti, tolto un Hamas se ne farà un altro. Io ora vedo solo macerie ma sono i mattoni che danno speranza e che potranno evitare ai ragazzini di oggi di diventare terroristi domani. È l’unica opzione. Vorrei che il mondo cominciasse a pensare a quello».

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