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Cassese: "Sì al premierato ma serve di più per avere stabilità"

Sabino Cassese

Hoara Borselli
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Sabino Cassese è uno dei più prestigiosi giuristi italiani. Ha 88 anni. Ha studiato alla Normale di Pisa e ha insegnato in molte università italiane, compresa La Sapienza. Ha lavorato con Mattei negli anni Cinquanta all’Eni, è stato consulente di Antonio Giolitti quando da ministro lavorava alla programmazione, è stato giudice Costituzionale. 

Se ne intende molto di diritto, di istituzioni e di giustizia. Perciò anche di politica. Non fa parte di nessun partito e di nessuno schieramento politico, è sempre rimasto un intellettuale indipendente. Merce molto rara.

Professor Cassese, condivide la riforma costituzionale che prevede il premierato?
«Il nostro sistema politico costituzionale presenta due inconvenienti: breve durata dei governi e loro scarsa coesione.
Stabilire una durata normalmente quinquennale delle compagini governative e assicurare una primazia a chi presiede il consiglio dei ministri è importante. Dunque, penso che la proposta del governo vada nella giusta direzione, anche se non tutti i mezzi mi convincono».

L’azzurro Gianni Letta ha espresso alcuni dubbi, paventando una riduzione del ruolo del Quirinale...
«Questo potrebbe non accadere se la scelta da parte dell’elettorato potesse esprimersi su una indicazione congiunta da parte dei partiti coalizzati, con un solo nome come Presidente del consiglio o Primo Ministro. In tal caso, il “matrimonio” tra le forze politiche coalizzate si farebbe davanti a un “ufficiale di stato civile” costituito dall’elettorato, con il vantaggio di assicurare un impegno dei partiti a rispettare il “matrimonio” e una indicazione, anche se non vincolante, per il Presidente della Repubblica a non turbarne l’armonia».

 



 

Il premierato darà al nostro paese la stabilità politica che non ha mai avuto?
«Ne costituisce la condizione di partenza. Poi, tutto dipende dalla disciplina dei partiti e dal loro rispetto della volontà popolare esercitata attraverso le elezioni. Ma questo è un problema che non riguarda la Costituzione, bensì l’assetto della politica italiana, che è in una condizione critica, perché i partiti hanno cambiato la loro natura, hanno molti pochi iscritti, un’organizzazione interna poco democratica, un dibattito interno asfittico o inesistente, una struttura periferica esile, programmi scritti sull’acqua».

Però nelle grandi democrazie non esiste il premierato. Noi saremmo l’eccezione virtuosa o la pecora nera?
«La figura del Primo Ministro si è sviluppata nel Regno Unito e su quella figura sono state compiute molte ricerche, alcune molto importanti, svolte anche in Italia. La differenza fondamentale tra l’assetto politico italiano e quello britannico è costituita dal bipartitismo anglosassone e dal multipartitismo italiano: lì il voto al partito comporta anche la scelta del Primo Ministro».

Non c’è il rischio che, come è successo tutte le altre volte, al referendum la riforma venga affossata?
«Questo è un rischio serio ed è per questo motivo che penso che la soluzione migliore sia di raggiungere un accordo in Parlamento, cercando di conseguire la maggioranza di due terzi dei parlamentari, e quindi ripiegando su una formula che, pur dando stabilità ai governi e assicurando la primazia di chi li dirige, non dia, attraverso una elezione separata e diretta del Primo Ministro, a questo un’investitura popolare più forte di quella che ha il Presidente della Repubblica. Una formula di questo tipo potrebbe raccogliere una maggioranza dei due terzi nel Parlamento».

Premierato e premio di maggioranza non sono un eccesso che rischia di mettere fuori gioco le minoranze?
«Sarebbe bene che il premio di maggioranza fosse stabilito con legge ordinaria e non nella Costituzione e che venisse dato a chi raggiunge una certa soglia. Ricordo che la legge De Gasperi del 1953 dava un premio a chi avesse già raggiunto la maggioranza dell’elettorato, per consolidarla in Parlamento e che un premio potrebbe essere dato alla forza politica o alle forze politiche che siano la più forte minoranza, raggiungendo almeno il 40 o il 45% dei voti popolari».

Giorgia Meloni si gioca tutto con questa riforma?
«Non credo. Occorre evitare il pericolo che il referendum sia contemporaneamente un plebiscito su chi l’ha proposto.
In quest’ultimo caso, si finisce per mescolare il consenso su una riforma con il gradimento sul proponente. Non ho bisogno di ricordarle le esperienze del recente passato in proposito».

Non sarebbe meglio fare le riforme con un accordo tra maggioranza e opposizione, magari realizzando una assemblea costituente?
«Un accordo tra maggioranza e una parte della minoranza, in modo da raggiungere i due terzi in Parlamento è la procedura auspicabile, sia per dare maggior forza alla modifica costituzionale, sia per evitare l’incognita del referendum. Ritengo questa soluzione preferibile a quella dell’assemblea costituente per un motivo molto semplice: è la strada maestra tracciata dalla stessa Costituzione per modificarla».

Parliamo di giustizia.. Secondo lei la riforma si farà?
«Dipende dalla riforma a cui lei si riferisce. Penso che si farà perché è urgente quella che riguarda il funzionamento complessivo della giustizia: l’arretrato è enorme e la diminuzione delle cause pendenti richiesta dal Piano di ripresa e di resilienza ha portato a una riduzione di quelle degli anni precedenti, ma alla costituzione di un pesante stock di cause pendenti più recenti. Penso che incontrerà ancora difficoltà la razionalizzazione della distribuzione territoriale dei tribunali in Italia, con la chiusura dei “tribunalini”, perché vi sono molto interessi convergenti a mantenere le strutture esistenti. Si tratta, comunque, della seconda più importante riforma. In terzo luogo, occorre aumentare la produttività dei magistrati, motivandoli, rendendoli responsabili della gestione complessiva del carico di lavoro e valutandone l’attività con le cosiddette pagelle, anche perché non è possibile andare avanti con il massimo dei voti dato a quasi tutti.
Ancora più difficile sarà la separazione dei poteri: quest’ultima è indispensabile per aumentare il numero dei magistrati che svolgono il mestiere o di procuratori o di giudici giudicanti, perché oggi sono troppi quelli adibiti a funzioni politico-legislative e amministrative. Infine, c’è la separazione delle carriere. Come vede, un programma denso che andrebbe scandito nel tempo».

Lei ha detto che la magistratura è un corpo sano che purtroppo si fa rappresentare dai peggiori. Ma la storia ci dice che i peggiori sono abbastanza potenti da poter impedire le riforme. Con la destra e con la sinistra al governo, non cambia molto...
«Il corpo politico sembra impaurito, sia quello di sinistra sia quello di destra; dopo l’esperimento fatto in questi anni bisognerebbe forse ritornare al testo originario della Costituzione e all’immunità».

Qual è il punto chiave della riforma. Gli avvocati dicono che è la separazione della carriere. Ma la separazione prevede una riforma costituzionale. Molto difficile che nella stessa legislatura si possano realizzare due riforme così importanti. Non crede?
«Credo che un governo che sappia programmare bene la propria attività potrebbe realizzare tutte le riforme nell’arco del proprio quinquennio di vita».

 



Senza separazione la riforma può reggere lo stesso?
«L’ordine delle riforme l’ho indicato prima. La separazione delle carriere, a mio avviso, non viene al primo posto, anche se ora ha assunto un valore quasi simbolico».

Per ridurre il potere strabordante delle Procure non si dovrebbe mettere mano alla custodia cautelare?
«Consiglio la lettura del libro di Alessandro Barbano, “La gogna” pubblicato molto di recente da Marsilio. Lì, attraverso una microstoria, cioè l’analisi di quel che è accaduto all’hotel Champagne, sono indicati tutti i malfunzionamenti che richiedono interventi di riforma».

Cosa pensa della denuncia di Crosetto?
«Ha indicato una preoccupazione, del cui fondamento specifico non so, anche se nel vasto arcipelago delle posizioni politiche all’interno della magistratura nessuno può escludere che vi sia qualcuno intenzionato ad assumere il “controllo della virtù” dei governi, secondo la bella sintesi fatta alcuni anni fa da Alessandro Pizzorno in un libro sui giudici».

Sarà mai possibile in Parlamento, un accordo tra sinistra e destra per cambiare la giustizia?
«Difficile, ma possibile».

Ironicamente ha parlato di ghigliottina per il sindaco Gualtieri. Chiara provocazione per sollevare un tema complesso come la gestione di Roma. Ci vuole un sindaco presente e non un tagliatore di nastri. Ci spiega meglio il suo pensiero?
«Roma sta morendo lentamente per l’incuria degli amministratori locali. Le condizioni elementari del vivere civile, dalla pulizia delle strade ai trasporti, mancano. Già qualche tempo fa, un corrispondente di un giornale straniero a Roma aveva osservato che in un altro Paese europeo, al verificarsi di analoghe condizioni, i cittadini, indignati, avrebbero occupato il Comune. Io mi sono limitato a proporre di utilizzare lo strumento della Rivoluzione francese. In fondo, è alla Rivoluzione francese che l’umanità deve l’affermazione delle libertà». 

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