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Toni Negri, per i compagni le sentenze non contano: resta un maestro (buono)

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Giovanni Sallusti
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Sostiene il già capo carismatico di Lotta Continua, Adriano Sofri, che non si può dare del «cattivo maestro» al già capo carismatico di Potere Operaio, Toni Negri, scomparso pochi giorni fa. Detto così sembra un rigurgito di reducismo fuori tempo massimo, un’ennesima puntata della copertura che si danno vicendevolmente i protagonisti del gauchismo novecentesco più estremo, l’ostinata rinuncia di una (sempre più) piccola tribù a un’ovvietà, quella per cui se una storia militante è stata anche criminale, la criminalità non può finire in cavalleria solo perché aveva contorni sinistri, perché delinqueva in nome della Rivoluzione piuttosto che della Razza (i cadaveri lasciati sul selciato non hanno potuto apprezzare questa decisiva differenza lessicale).

E tuttavia, visto che Sofri svolge il ragionamento/invettiva nella sua Piccola Posta sul Foglio, tra citazioni letterarie (dello stesso Negri in primis) ed evocazioni parigine ideali per sovrapporre il defunto al suo santino, l’argomentazione merita di essere affrontata. Sfrondata da tutti gli orpelli narrativi funzionali al mito di questo piccolo Sartre (e comunque, no egregio Sofri, Negri non ha scritto niente di paragonabile a L’essere e il Nulla), recita: non potete dire che era un cattivo maestro, perché non era solo quello. È stata ingenerosa, quella titolazione (inciso: i titoli sono ingenerosi per definizione, e dire che Sofri scribacchia sui giornali da qualche decennio), perché Negri è stato anche uomo di pensiero, di scrittura, di «rapporto tra teoria e pratica». Certo che lo è stato, infatti un “cattivo maestro” è un (sotto)tipo di maestro. Conosceva le virgole del materialismo storico e spaziava da Hegel a Spinoza? Benissimo, è proprio perché ha speso il suo robusto bagaglio di “teoria” per corrobare nella “pratica” le velleità terroriste e omicide di estremisti più a loro agio col tamburo della pistola che con la Fenomenologia dello Spirito, che merita il nome e sì, anche l’etichetta di “cattivo maestro”. Non è una valutazione moralistica, semmai morale, che è tutt’altra cosa: è la conclusione a cui non può non arrivare qualunque mente onesta di fronte alla parabola concreta, esistenziale di Toni Negri. Partecipazione ad associazione sovversiva, partecipazione a banda armata e concorso morale in una rapina in cui morì un carabiniere.

 



VERITÀ GIUDIZIARIE
Questa è la verità giudiziaria. La verità intellettuale sta in passi del genere: «Dentro lo stabilizzarsi della crisi, la violenza assume una valenza fondamentale... Essa è la calda proiezione del processo di autovalorizzazione operaia. Non sapremmo immaginare nulla di più completamente determinato, di più ingombro di contenuti, della violenza operaia». I tribunali (che ci rendiamo conto hanno l’imperdonabile difetto di rappresentare lo Stato borghese) e le sue stesse opere certificano che l’uomo era un cattivo maestro, tanto che lo rivendicò personalmente davanti alla corte d’Assise di Roma nel 1983: «Mi accusate di essere un “cattivo maestro” e certo, dal vostro punto di vista avete ragione: ho insegnato che la rivoluzione non solo è possibile ma è necessaria, quando le coscienze si siano trasformate». Trasformare le coscienze per scatenare la violenza rivoluzionaria e svolgere il teorema della Storia: instaurare il comunismo.

Gli individui? Corollari minori del teorema. Sissignori, era un cattivo, un cattivissimo maestro, non solo si può, ma si deve dire. Per rispetto della realtà e di quel suo spicchio particolare, insanguinato e non riscattabile, che sono le vittime. E pure per rispetto delle sentenze. Almeno così ci ha recentemente bacchettato il mainstream a proposito, ad esempio, della sentenza sull’attentato alla stazione di Bologna. Le sentenze come dogma, verità rilevata di fronte a cui non bestemmiare. Tranne quelle che scomodano i cattivi maestri racchiusi in quello che Rossana Rossanda chiamava “l’album di famiglia”. Quelli, come nel caso di Toni Negri, si possono appellare «profeta» (Casarini), «una grande perdita» (Cacciari), si può vantare «la fortuna» di averli conosciuti (Fratoianni). È per questo che hanno vinto, i cattivi maestri: perché il doppiopesismo ideologico è diventato l’abc del discorso pubblico. Su tutto il resto, per fortuna, Negri, Sofri e compagni minori hanno perso.

 

 

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