La lettera degli ex sindaci di Venezia - Bergamo, Cacciari, Costa, Orsoni - introduce un nuovo capitolo nella vicenda che da settimane scuote il Teatro La Fenice. Un intervento autorevole, scritto con il tono di chi ha amato e amministrato un’istituzione prestigiosa. Eppure, nel coro crescente di appelli, prese di posizione, distinguo e ammonimenti, una sensazione emerge chiara: la baruffa continua e non perché manchino le sedi per confrontarsi, ma perché la questione ha ormai superato i confini della semplice nomina.
Gli ex sindaci richiamano la “prassi consolidata” dei grandi teatri del mondo, secondo cui direttore musicale e orchestra dovrebbero conoscersi e lavorare insieme prima di un incarico formale. È un principio condivisibile, persino ragionevole ma il punto è un altro: la prassi non è una legge, non è uno statuto, non è un vincolo giuridico. È un’abitudine, nobile quanto si vuole, ma pur sempre un’abitudine. E quando una prassi diventa un totem, un’arma polemica, un dogma da brandire, smette di essere prassi e diventa qualcos’altro.
Nel caso Fenice, il sovrintendente ha fatto una scelta- corretta o sbagliata che la si ritenga- che rientra pienamente nelle sue prerogative. Non esiste un articolo, una norma, un regolamento che obblighi un teatro italiano a “consultare” l’orchestra prima di nominare un direttore musicale. Lo si può ritenere opportuno, auspicabile ma non si può trasformare un uso non scritto in un tribunale morale, né tanto meno in una condizione sospensiva della nomina.
La reazione esplosiva che ne è seguita mostra chiaramente che, oggi, alla Fenice si sta combattendo una battaglia che supera di molto i confini artistici. La figura di Beatrice Venezi è diventata - e questo è sotto gli occhi di tutti — un simbolo politico, più che una scelta musicale. Una parte del mondo culturale la considera “di destra”, e da quel momento ogni gesto, ogni incarico, ogni parola è diventata oggetto di un giudizio che nulla ha a che vedere con il podio, con la bacchetta o con la qualità del lavoro. Che piaccia o no, è questo l’elefante nella stanza. E attorno a questo innesco, la discussione si è allargata fino a diventare un braccio di ferro ideologico dove, paradossalmente, la musica rischia di essere l’ultima voce ascoltata.
Gli ex sindaci invocano un ritorno alle “regole consolidate”. È un auspicio sincero, ma il rischio è che, pronunciata così, la parola “regole” venga confusa con la parola “prassi”, come se fossero sinonimi. Non lo sono.
E per risolvere la crisi occorre ripartire proprio da qui: dalla realtà giuridica, non dalla nostalgia per un metodo che, tra l’altro, non è mai stato universale né immutabile nei teatri del mondo. Per uscire dalla spirale — e tutti dovrebbero volerlo — serve compostezza istituzionale, non invettiva; serve dialogo, non anatema; serve riconoscere che un teatro vive quando il suo timone è saldo, non quando ogni decisione viene sottoposta a plebisciti informali.
La Fenice è risorta da incendi veri: saprà resistere anche a questo incendio verbale, purché si distingua ciò che è norma da ciò che è tradizione, ciò che è dissenso da ciò che è battaglia politica, ciò che è musica da ciò che musica non è più. E, per quanto oggi sembri difficile da credere, la strada per uscire c’è: tornare a confrontarsi, a parlare con pragmatismo, rispettare i ruoli. Ricordando che la cultura non è un referendum permanente.