Girolamo Sirchia 20 anni fa ci ha migliorato la vita, anche se in quel momento, forse, non tutti ce ne stavamo rendendo conto. Già, perché quando era ministro della Salute nel secondo Governo Berlusconi è riuscito («Ma che fatica, i peggior nemici erano proprio nel centrodestra») a far approvare la legge che tuttora vieta di fumare nei locali pubblici al chiuso. Un cambiamento epocale per il quale, ancora oggi, il professore milanese riceve ringraziamenti da tutti. Sirchia, che ha 92 anni portati meravigliosamente, racconta quella battaglia, ma anche una vita intensa («Ho visto Milano a fuoco per i bombardamenti della guerra») e una carriera da luminare della medicina.
Appuntamento a “La Fondazione Il Sangue”, in centro a Milano. Professor Girolamo Sirchia, è la sua base?
«Dal 1981 sono segretario della Fondazione. La nostra finalità è la promozione della salute, la prevenzione primaria e la medicina predittiva. Questo è il mio ufficio e ci vengo tutte le mattine: nel pomeriggio, invece, mi occupo di altri lavori, oppure partecipo a incontri o conferenze, anche se ultimamente cerco di limitare gli impegni e i viaggi perché ho 92 anni».
Però è in gran forma.
«Il segreto è mantenere vivo qualche interesse e applicarsi con entusiasmo».
Un po’ conterà anche lo stile di vita, no? Per esempio, cosa mangia?
«Di tutto, ma moderatamente: la moderazione è fondamentale. Ogni tanto mi concedo pure un bicchiere di vino».
Fa molta attività fisica?
«Il giusto. Qualche passeggiata qui nei Giardini della Guastalla e altri piccoli spostamenti. Anche perché ho la patente, ma non l’auto».
Ovviamente non fuma.
«Purtroppo l’ho fatto da giovane perché in qui tempi non si sapeva bene quali danni facessero le sigarette. Ho smesso quando sono andato in Inghilterra come ricercatore: là non avevano la mia marca preferita, la Turmac».
Non poteva portarsele dall’Italia?
«Era rischioso, alla dogana chiedevano sempre se ci fosse qualcosa da dichiarare: mi avessero beccato che figura avrei fatto? Così ho deciso di smettere».
Ora la moda sono le “svapo”, sigarette elettroniche e tabacco riscaldato. Ha uno sguardo severo, come mai?
«Le fanno passare come qualcosa di utile e non dannoso. Ma non è così».
Cosa c’è di pericoloso nelle “svapo”?
«Attraverso il riscaldamento ad alte temperature espongono i consumatori a migliaia di sostanze chimiche, alcune delle quali cancerogene. E dentro, per migliorare il sapore, c’è di tutto: il problema è che, ancora, non si possono conoscere i danni che lasceranno a lungo termine».
A proposito di fumo, la gente, ricordando la sua legge, le dice ancora qualcosa quando la riconosce?
«Anche oggi, a distanza di 20 anni, tutti mi ringraziano».
Torniamoci indietro insieme, a quel periodo. Anzi, partiamo ancora più lontano: dal piccolo Girolamo Sirchia.
«Nasco a Milano il14 settembre 1933. Mio padre Salvatore, visto il periodo difficile, fa tutti i mestieri possibili, mamma Clementina è casalinga».
Figlio unico?
«Sì e i miei mi mandano a studiare all’Istituto Gonzaga, a parte la parentesi della guerra».
Parliamone.
«Ho 10 anni e capisco poco di quanto sta succedendo, ma assisto a eventi traumatici come il bombardamento di Ferragosto a Milano».
Quello del 1940?
«No, quello del ’43. Abitiamo in Città Studi vicino alla Olap, fabbrica che produce strumenti bellici. La notte del 15 agosto è terrificante, suonano le sirene, ci nascondiamo in cantina e sentiamo le bombe.
Finito l’attacco, papà mi porta sulla terrazza in cima al palazzo e, davanti a noi, si presenta uno scenario agghiacciante: tutta Milano è in fiamme, si ha la sensazione della fine del mondo».
Da brividi. Riuscite a scappare in un posto meno pericoloso?
«Mio padre trova una sistemazione a San Pellegrino Terme, in provincia di Bergamo, e sfolliamo là per tre anni».
Riesce a studiare?
«Con un insegnante privato, ma non imparo molto e all’esame di terza media non mi bocciano per carità di patria».
Il 25 aprile 1945 finisce l’incubo della guerra.
«Mi accorgo che c’è qualcosa di strano vedendo molte persone accovacciate al riparo della balaustra affacciata sul fiume Brembo. Poi capisco: sta iniziando la liberazione. Qualche sparo, un po’ di trambusto e alcuni minuti dopo arrivano gli americani, che sono in gran parte hawaiani».
Quanto tornate a Milano?
«Nel settembre del ’46. Poi, riprendo a frequentare il Gonzaga e lì conosco Don Gnocchi».
Qualcosa che non dimenticherà mai del Beato?
«Si prodiga con tutte le forze per i bambini mutilati in guerra e raccoglie fondi per le sue opere- che chiama “la mia baracca” -. Ricordo un’omelia pasquale che fa piangere le madri del Gonzaga!».
Addirittura?
«Le sue prediche sono molto dure. Alle mamme impellicciate fa notare che ci sono bambini mutilati, che nessuno assiste, i quali hanno bisogno di tutto. Moltissime di loro, toccate da queste parole, rispondono con donazioni generose».
Dopo il liceo scientifico si iscrive all’Università Statale di Milano.
«Nel 1958 mi laureo in Medicina e Chirurgia con 110 e lode, nel 1963 prendo la specializzazione in Medicina interna e nel 1969 quella in Immunoematologia. Nei due anni seguenti conseguo la libera docenza in Semeiotica Medica e quella in Ematologia».
Poi intraprende la carriera accademica come assistente volontario e lavora al Policlinico, Padiglione Granelli.
«Sì, al Policlinico ci lavoro tutta la vita fino alla pensione, nel 2001».
Come è fare il medico negli Anni ‘70?
«Si impara il mestiere direttamente in reparto e poi in laboratorio».
Senza, però, avere a disposizione le tecnologie di oggi.
«In quel periodo le possibilità diagnostiche e terapeutiche sono inferiori, è vero, mala capacità clinica è maggiore e lo studio del malato è più approfondito, diretto, personale».
Parallelamente all’attività medica, nel 1999 inizia l’esperienza politica: come ci arriva?
«Me lo propone Gabriele Albertini, allora sindaco di Milano, attraverso il mio amico Stefano Parisi, direttore generale del Comune. “Abbiamo bisogno di un assessore ai Servizi Sociali al posto di Ombretta Colli - mi dice -, ti interessa?”. “Non l’ho mai fatto, ma se volete provo”».
Lei politicamente, in quel periodo, da che parte sta?
«Frequento gli ambienti della Dc di Milano, dove conosco Gianstefano Frigerio e Giovanni Marcora».
Come è l’esperienza in Comune?
«Mi occupo in particolare del sostegno agli anziani soli e fragili istituendo il Servizio dei Custodi Sociali: persone che visitano quotidianamente i vecchi in difficoltà, nei quartieri popolari, dando loro il supporto necessario. In quei due anni, mi creda, vedo situazioni incredibili ».
Tipo?
«I poveri anziani sono sopraffatti dalle prevaricazioni di inquilini abusivi e disonesti che fanno loro ogni sorta d’angheria. Talora, per paura, rinunciano ad uscire di casa».
Altre iniziative?
«Il “Buon Natale” per gli anziani con l’amico Renato Pozzetto come testimonial».
Come lo conosce?
«Alla “Mille Miglia del Garda” nel 1986, nella quale Renato quell’anno partecipa come ospite. Essendo all’apice del successo, la folla impazzisce per lui: c’è chi vuole l’autografo, chi cerca di toccarlo, chi lo abbraccia come fosse la Madonna».
Da quel momento vi legate.
«Divento uno dei suoi amici medici e ci frequentiamo spesso. Gli voglio bene, ci sentiamo ancora».
Torniamo alla politica. Già in quella prima esperienza si rende conto che è un ambiente difficile.
«Diciamo pure molto complicato. Una assessora del Pd mi denuncia per abuso di ufficio perché uso il telefono e altri strumenti del Comune a favore degli anziani, che seguo come assessore. Assurdo, che amarezza».
Il caso si sgonfia subito e, per fortuna, non la fa scappare dalla politica. Nel 2001 fa il grande salto: dal Comune al ministero della Salute.
«Me lo suggerisce il sindaco Albertini e andiamo ad Arcore da Berlusconi, che ancora non conosco».
Come è l’incontro?
«Cordiale. Il Cavaliere mi chiede: “Ma lei non fa i trapianti?”, perché in quel momento me ne occupo in qualità di immunologo. E aggiunge: “Come mai vuole cambiare e fare il ministro?” Rispondo: “La mia esperienza clinica e organizzativa potrebbe tornare utile al governo. E ho molte idee su come migliorare la sanità”».
Viene nominato ministro senza ulteriori trattative?
«In quel periodo, con Berlusconi, funziona così. Pensi che Pietro Lunardi viene contattato mentre è in un cantiere in Germania: quando risponde al telefono e il Cavaliere gli propone di diventare ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, inizialmente pensa a uno scherzo. Con Lunardi ho sempre avuto un ottimo rapporto, era bravissimo e il più simpatico di tutti».
Ritorniamo a lei. Come è l’impatto con la Capitale?
«Arrivo il 16 giugno 2001, con la Roma che ha appena vinto lo scudetto, e c’è un caos pazzesco. Mi faccio subito portare nella foresteria dei carabinieri, dove poi resto a vivere per oltre due anni».
Non cerca una casa?
«Non serve, esco la mattina alle 7.30 e rientro la sera tardi: mi bastano quelle due stanze con un cucinino».
Vita impegnativa quella del ministro?
«Molto stressante, sono sempre sotto tensione e la notte non riesco a dormire: si gioca tutto su equilibri sottilissimi e c’è da temere soprattutto chi ti sta vicino. Alle 6.30 inizio già a lavorare con la telefonata del portavoce che mi aggiorna sulla rassegna stampa. E, spesso, è da mal di testa perché i giornali fanno titoli assurdi».
A Roma trasferisce tutta la famiglia?
«No, ci vado solo. Cristina e Silvia, le figlie avute dal primo matrimonio, hanno ormai la loro vita e Anna Maria, la mia seconda moglie, resta a Milano».
Come mai decide di occuparsi subito del fumo?
«In quel momento i dati sono allarmanti: è il nemico numero uno per la salute. Partendo da questo presupposto elaboro, insieme con i miei collaboratori più stretti, un piano strategico per fare la legge e, soprattutto, dribblare le insidie dell’iter di approvazione».
Addirittura?
«Le resistenze sono tantissime».
I nemici principali sono quelli dell’opposizione?
«No. L’ostacolo più pericoloso è il fuoco amico».
Qualche nome?
«Antonio Martino, ministro della Difesa, e Gianfranco Fini, vicepresidente del Consiglio, due fumatori accaniti, sono i più agguerriti».
Come argomentano la loro posizione?
«Con la storiella secondo la quale, approvando la legge, molti locali chiuderebbero e si perderebbero posti di lavoro. Tesi peraltro sostenuta pure da alcuni giornalisti».
Lei cosa risponde?
«Che c’è il precedente della California, dove è da poco stata approvata una legge analoga: i dati dicono che non solo non si sono persi posti di lavoro, ma che, dopo la legge antifumo, se ne sono guadagnati dato che molte persone che non frequentavano quei luoghi per l’aria inquinata, hanno ripreso a frequentarli».
Chi, invece, sostiene il suo provvedimento?
«Roberto Maroni e Carlo Giovanardi in quel momento mi stanno vicini con grande forza. E un aiuto fondamentale lo ricevo anche al Quirinale».
Il Presidente della Repubblica è Carlo Azeglio Ciampi.
«Un grande uomo troppo spesso, ingiustamente, criticato».
Quale è il passaggio cruciale per l’approvazione della legge?
«Un disegno di legge presentato dal Ministro Veronesi tre anni prima era stato bocciato in Parlamento perché tacciato di proibizionismo. Noi, invece, non proibiamo il fumo ma difendiamo il diritto dei non fumatori a non essere intossicati dal fumo passivo. La legge infatti titola: “Protezione dei non fumatori dal fumo passivo”».
Quando, il 23 dicembre 2004, si arriva all’approvazione dei decreti attuativi ha già convinto i suoi oppositori?
«Macché, rischia di saltare tutto proprio all’ultimo momento».
Come mai?
«Prima del Consiglio dei ministri decisivo a Palazzo Chigi c’è un break. Il fronte che si oppone tira fuori ancora la faccenda dei posti di lavoro, poi sostiene che io farò perdere un sacco di voti al centrodestra.
Sembra finita».
E cosa fate?
«Ci riuniamo in una saletta. Ho contro Fini, Tremonti, Martino, la Lega nicchia e la lobby del fumo è scatenata».
Poi?
«Mi alzo in piedi e spiego che “dopo due anni di lavoro non si può gettare la spugna e dire che sul divieto abbiamo scherzato”. E aggiungo: “Nel caso i decreti non vengano approvati, rassegno le dimissioni”».
Situazione delicata.
«Berlusconi inizialmente propone di rimandare e controbatto: “Significherebbe perdere la credibilità”. Poi, per fortuna, si convince e il suo intervento diventa decisivo: “Va beh, Sirchia, se la metti cosi allora li approviamo- dice- però mi devi fare una promessa: per sei mesi non farai niente, procediamo con cautela e per un po’ nessuna multa”».
Come mai quel sorriso?
«Lo tranquillizzo e dico di sì, ma è solo un modo per portare a casa l’approvazione: dopo due giorni i Nas fanno un controllo in Regione Lombardia e trovano molti a fumare come turchi. E così scattano le sanzioni fra le proteste generali. Posso aggiungere una cosa?».
Certo.
«Mi permetta di ricordare l’incredibile appoggio avuto dal Generale Gennaro Miglio, comandante dei Nas in quel momento. Un grande, un eroe morto in servizio troppo giovane».
Torniamo alla sua legge. Stabilisce che “È vietato fumare nei locali chiusi, ad eccezione di: a) quelli privati non aperti ad utenti o al pubblico; b) quelli riservati ai fumatori e come tali contrassegnati” ed entra in vigore il 10 gennaio 2005.
«Quella sera, con i miei collaboratori, vado a cena a festeggiare in un ristorante di via Veneto, a Roma. Nessuno dei clienti fuma e, anzi, tutti mi ringraziano. Non solo...».
Dica.
«Quando, le settimane successive, viaggio in treno molti vengono a stringermi la mano: per il personale delle Ferrovie dello Stato, fino a quel momento costretto a lavorare immerso nel fumo, è la fine di un incubo».
Come è, in quel periodo, il Berlusconi presidente del Consiglio?
«Un grande. Al primo Consiglio dei ministri dice a tutti noi: “Io sono un imprenditore, voi per me siete come degli amministratori delegati dei vostri ministeri: mi fido di voi, non interpellatemi per ogni questione”».
Prima diceva che l’ambiente politico era difficile. Ora è migliorato o peggiorato?
«Il livello è sempre abbastanza basso, c’è gente che non è all’altezza e obbedisce solo al partito. Non ci sono i grandi personaggi di un tempo».
Non c’è proprio nessuno che le piace?
«Passiamo alla domanda successiva che è meglio».
Nel 2005 ha avuto problemi con la giustizia ed è stato indagato per corruzione, condannato ma poi assolto con formula piena.
«Quelle accuse infondate mi hanno distrutto l’immagine e avrebbero potuto crearmi seri problemi: se in quel periodo, anziché essere già in pensione, fossi stato ancora al Policlinico mi avrebbero licenziato. Erano questioni ideologiche: ce l’avevano con Berlusconi e hanno colpito chi gli stava vicino. Più che magistrati erano inquisitori: la divisione delle carriere è a mio avviso giustissima».
Professore, ultime domande veloci.
1) Rapporto con la religione?
«Sono di ispirazione cattolica, ma non perfetto».
2) Paura della morte?
«Certo, come tutti. Ma soprattutto temo il dolore, la sofferenza».
3) Come pensa di morire?
«Sarà probabilmente un evento cardiovascolare per questioni di eredità: un ictus o infarto».
4) Qualcuno che vorrebbe riabbracciare?
«Cossiga. Abbiamo passato un intero pomeriggio a passeggiare sulla spiaggia, a San Teodoro, parlando dei fatti della vita».
5) Fosse oggi ministro della Salute quale altra legge farebbe?
«Credo mi concentrerei innanzitutto sull’alimentazione e, come prima cosa, proibirei le pubblicità ingannevoli: sono troppi i cibi che fanno male».
Ultimissima domanda: ha ancora un sogno?
«Mi piacerebbe tanto acquistare una jeep: la mia preferita è la Willys del 1944. Di colore verde, ovviamente».




