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Quando Enzo Biagi condannava i processi a mezzo stampa

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"Sulla giustizia italiani ho dei dubbi". Peccato che Fatto e Repubblica lo abbiano ridotto a un breviario di citazioni trombonesche

Andrea Tempestini
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Lo hanno trasformato in una statuetta da lustrare, ridotto a un breviario di citazioni trombonesche buone per il moralismo contro Berlusconi. A Enzo Biagi il Fatto quotidiano deve persino il nome, lo stesso della trasmissione che il celebre giornalista realizzava per la Rai.  Ci perdoneranno gli amorevoli colleghi se per una volta siamo noi a riportare qualche frase del loro maestro. Nel 1984 Biagi pubblicò per Mondadori un libriccino molto interessante, intitolato Diciamoci tutto, che raccoglieva vari  articoli scritti per i quotidiani e le riviste a cui collaborava. A quel tempo, fra l'altro, era una delle firme di punta di Repubblica (pur non condividendone «una certa altezzosità intellettuale. E forse anche un certo schematismo nelle polemiche»), dove era approdato dopo aver lasciato il Corriere della Sera. Nel giornale di Eugenio Scalfari lavorava anche un altro monumento della carta stampata, che i lettori di Libero conoscono bene: Giampaolo Pansa. Come introduzione alla raccolta dei suoi pezzi - invece della solita prefazione - Biagi accluse un'intervista fattagli proprio da Pansa. Qui viene il bello. A un certo punto della conversazione fra i due pesi massimi, si incappa in un passaggio per lo meno curioso riguardante i  giudici. E si scopre che Enzo, il mito di Repubblica e del Fatto, non era esattamente entusiasta  del funzionamento della giustizia italiana. Anzi,   condannava senza mezze misure il circo  mediatico-giudiziario. Lo stesso che i due quotidiani di cui sopra mettono in scena ogni giorno contro Berlusconi e il centrodestra tutto. Durante l'intervista, Pansa introduce l'argomento giudici, a partire dal caso Tortora.  Biagi, pur non definendosi «innocentista»,  è fermamente contrario alla campagna diffamatoria condotta conto il conduttore televisivo e nutre più di una perplessità sulla sua colpevolista.  In ogni caso, preferisce  andarci cauto.  Poi, dallo specifico della vicenda di Tortora, allarga la riflessione al quadro più generale delle aule italiane.  «Mi sono limitato a questo perché non voglio sostituirmi al giudizio di un tribunale», spiega Biagi,  «anche se ho qualche dubbio, ormai, sulla giustizia come viene amministrata in Italia. E mica soltanto io ce l'ho. In un programma televisivo (...) ho domandato a dei magistrati dove preferirebbero essere giudicati se avessero qualcosa di cui rispondere. E tutti mi hanno detto: in Inghilterra. Curioso no? (...) Posso o non posso dire che non mi va come si è sviluppata questa inchiesta? Parlo dell'inchiesta condotta sui giornali». Che cosa, nell'atteggiamento della stampa, infastidisce tanto Biagi?  Risposta: «Il metodo del massacro. Chiunque di noi, anche Enzo Biagi o Giampaolo Pansa, anche l'uomo più pulito del mondo, può uscire a pezzi da una storia simile, ucciso dai resoconti dei giornali». Segue l'affondo: «Mi pare allucinante questo modo tutto nostro di fare le cronache giudiziarie. In Inghilterra non ti puoi nemmeno avvicinare con la macchina fotografica all'area in cui sorge il tribunale. In Italia, invece, i processi li facciamo con la carta stampata. Ma siamo matti?». La visione di Biagi del mestiere di cronista confligge un po' con le tirate «contro il bavaglio», con lo sputtanamento selvaggio tramite intercettazioni o con la foia della manetta tipiche di Travaglio, Ezio Mauro e compagnia zufolante. O ancora con l'astio ideologico che ieri ha spinto  i giornali progressisti a ignorare quasi completamente una notizia (la richiesta di archiviazione da parte della Procura di Roma) poiché favorevole a Berlusconi. Chissà, forse Repubblica e il Fatto erano tanto impegnati a citare Biagi che si sono dimenticati di leggerlo. di Francesco Borgonovo

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