Di Lucio Battisti, come di ogni mito, crediamo di sapere tutto ma, a venticinque anni dalla morte, la vita di questo artista è come un deserto ancora poco esplorato: se si smuove la polvere che il tempo deposita sui giorni si può trovare una foto, recuperare una parola, a volte anche uno sguardo che rinnovano lo stupore verso la voce che abbiamo portato- e portiamo ancora con noilungo le strade dei nostri viaggi, nelle serate in riva al mare attorno al fuoco, nei nostri amori sgangherati, vissuti, perduti o solo sognati.
Martedì sera il documentario di Maite Carpio, «Lucio per amico. Ricordando Battisti», ha realizzato proprio questa magia: regalarci un nuovo sguardo per entrare nel mondo e nel mistero del cantante che la storia ha consegnato alla leggenda. Prodotto dalla Garbo in collaborazione con Rai documentari è stato trasmesso in prima serata su RaiUno. «È stata una sfida, all’inizio c’erano delle perplessità ma grazie al direttore di Rai documentari, Fabrizio Zappi che ci ha creduto, i risultati ci hanno dato ragione», racconta la regista. Oltre due milioni di spettatori (per uno share che ha sfiorato il 14%) sono stati trasportati in un mondo che sembra lontano ma che in realtà è ancora qui, vivo in mezzo a noi (chi martedì ha perso questo cammeo può recuperarlo su Raiplay).
Battisti è stato raccontato dai suoi amici. Da Mogol, soprattutto. Generoso come le sue canzoni, il giocoliere delle parole ricorda il primo incontro con quel ragazzo dalla testa piena di riccioli e pensieri che un giorno si presenta nel suo studio milanese e gli fa ascoltare delle canzoni. «Non mi sembrano un granché», la risposta. «Sono d’accordo», replica Lucio con uno dei suoi sorrisi grandi e luminosi. L’umiltà di quel giovane arrivato dalla provincia laziale smuove qualcosa in Mogol che, preso dai sensi di colpa, gli chiede di passare nuovamente da lui così avrebbero lavorato un po’ insieme.
IL MIRACOLO
Lucio torna e accade il miracolo: da quell’incontro nascono parole e note che hanno fatto la storia della musica e attraversato le vite di tre generazioni (per ora...). Improvvisamente tutto quello che fino a quel momento era stato cantato e suonato appare vecchio e viene messo in soffitta. Battisti e Mogol riscrivono i codici della musica, rivoluzionano il linguaggio e con il loro «canto libero», superano felicemente anche gli anni in cui la militanza politica impregna perfino le canzoni. Mentre tutti parlano di lotta di classe e di rivoluzione, loro continuano a raccontare i moti dell’anima.
Il documentario racconta l’unione di due geni attraverso i ricordi di chi con loro lavorava e assisteva giorno dopo giorno all’incantesimo di un’intesa che superava i confini del sodalizio artistico e prendeva la forma della perfezione benedetta da Dio o da chissà quale entità superiore. Come in un grande amore Battisti e Mogol sono due metà della stessa mela che si incastrano alla perfezione bastando a loro stessi. Per un anno Carpio ha raccolto le interviste di molti personaggi- da Roby Matano (il primo a credere in Battisti) a Caterina Caselli, da Franco Mussida (batterista della Pfm) a Mara Maionchi, da Renzo Arbore ad Adriano Pappalardo – solo per citarne alcuni. E proprio attraverso le parole di chi lo conosceva bene si crea un affresco inedito di Lucio. «Ho scelto di non utilizzare una voce narrante, ho preferito un documentario narrativo in cui il racconto prende forma dalle parole degli intervistati».
DOCUMENTI INEDITI
Con un raffinato lavoro di montaggio le interviste che si susseguono aggiungono via via tasselli alla creazione di una nuova immagine di Lucio. Emerge il ritratto di un uomo solitario, riflessivo, spinto da una logica ferrea, «un matematico», lo definisce Mogol. Un ragazzo timido ma allegro, che non ama parlare di sé ma che sa ascoltare. La sua voce all’inizio lascia tutti perplessi (Natalia Aspesi parla di chiodi che gli stridevano in gola), ma Mogol intuisce che è proprio quella «voce-non-voce» a toccare le corde giuste. Ci sono le foto che la regista ha faticosamente recuperato negli archivi, i video delle prime esibizioni di Battisti e la voce delle ultime interviste rilasciate ad emittenti straniere. Lucio aveva già deciso di sparire. Il filo che cuce tutta la trama sono ovviamente le canzoni («è stato durissimo avere i diritti dalle case discografiche», rivela Carpio), da Amarsi un po’ a Emozioni, nata dopo un viaggio a cavallo attraverso l’Italia. E poi Acqua azzurra, acqua chiara che Renzo Arbore volle a tutti i costi al Festivalbar, nel 1969 Un’avventura si piazzò nona a Sanremo ma prima nelle classifiche.
Gli anni scorrono di successo in successo, la coppia Battisti-Mogol sembra vivere una favola senza fine, invece l’idillio svanisce, il rapporto si sfilaccia e poi si rompe per questioni di spartizioni dei proventi dei diritti. Lucio si rifugia nella sua ombra. Non si mostra più al pubblico consegnandosi così all’eternità. Nella parte finale uno struggente Mogol racconta della lettera che scrive a Lucio quando sa che sta male. «Gli ho voluto bene, gli voglio ancora bene», confessa con gli occhi chiari che si riempiono di lacrime. Il documentario poteva concludersi così, al massimo della tensione emotiva, ma la Carpio sceglie dei giovani cantanti che reinterpretano alcune delle sue canzoni a testimoniare che Battisti non è mai morto, che la sua voce riecheggia ancora nelle nostre vite e in quelle delle nuove generazioni. Perché ha cristallizzato il tempo. Non c’è passato, ma solo un lungo, eterno, futuro.