La polemica

Partigiani a scuola, l'Anpi non ha il monopolio della Resistenza

Marco Patricelli

Diamo un po’ di numeri, giusto per non dare i numeri sulla storia. I partigiani, secondo i dati dell’Archivio centrale dello Stato, mica del Corriere di condominio in ciclostile, conoscono questa progressione: circa 10.000 dopo la resa incondizionata dell’8 settembre 1943; nel periodo di febbraio-marzo 1944, le stime in base ai rapporti sull’attività delle bande nella zona d’Italia sotto controllo nazifascista danno una consistenza di 30-40.000; nell’imminenza del 25 aprile 1945 siamo a circa 130.000; dopo, il numero quasi raddoppia arrivando a 250.000. Né legioni né milioni, ma tanti epigoni sì.
Oggi Anpi, l’Associazione nazionale dei partigiani, come rivendica orgogliosamente il presidente Gianfranco Pagliarulo, sfoggia la bellezza di 140.000 iscritti, insorgenti professionisti su qualsiasi aspetto della vita civile e politica, naturalmente senza essere un partito ma essendo contigui ad alcuni di essi e solo a essi. Aldilà della reale rappresentanza degli ex partigiani, va puntualizzato quale rappresentanza abbia davvero Anpi secondo i fatti e non secondo i proclami. Di chi e di cosa, soprattutto.

L’Associazione viene fondata nel giugno 1944, quando si combatte ancora al Nord, dal Comitato di liberazione nazionale. A guerra conclusa, trasformata in ente morale, «Mentre l’Associazione nazionale combattenti ebbe 8 consultori e quella dei mutilati e invalidi di guerra 4, all’Anpi ne furono assegnati 16, a conferma del prestigio di cui godeva.

 

 

Erano così suddivisi: 3 socialisti, 3 democristiani, 3 liberali, 3 comunisti, 2 del Partito d’Azione, 1 del Partito democratico del lavoro e, infine, un consultore che non apparteneva a nessun partito. Nello Statuto erano evidenziati gli scopi operativi che la struttura si era prefissata» (virgolettato Anpi). Dopo il primo congresso del 1947, le divergenze sulla visione politica delle varie anime della resistenza emersero con prepotenza e «nel 1948 vennero avviate delle vere e proprie persecuzioni contro i partigiani che l’Anpi fronteggiò con vigore. Furono ben 830 i combattenti per la libertà che subirono processi».

DOPPIA SCISSIONE - Accade qualcos’altro, però: azionisti e cattolici (Associazione partigiani cattolici) erano già usciti da Anpi e si consuma la doppia scissione con la costituzione della Federazione italiana combattenti per la libertà (Fivl) e la Federazione italiana delle associazioni partigiane (Fiap: cattolici dell’Apc e altre 22 associazioni). Si chiamano infatti fuori tra il 1948 e il 1949 cattolici, militari, autonomi, monarchici, liberali, azionisti, giellini, socialdemocratici, socialisti, liberali, anarchici, che non condividono il filosovietismo anpista. Qualche nome appena: Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri, Enrico Mattei, Paolo Emilio Taviani, Piero Calamandrei, Norberto Bobbio, Nuto Revelli, Leo Valiani, Ugo La Malfa.

Cosa è rimasto dentro l’Anpi, da allora, è chiaro. Com’è chiaro che l’anagrafe e le leggi di natura hanno indotto l’associazione ad aprire indistintamente a chiunque pur di rimpolpare i ranghi che si assottigliavano nelle continue battaglie su tutto e non solo sulla memoria di quello che era stato. E così, ecco ampie praterie di pascolo per “insorgere” su ogni manifestazione della contemporaneità, comprese le trivelle in Adriatico non certamente dovute alle Kriegsmarine tedesca. Anpi insorge su tutto, come un partito che non è, rigorosamente dalla sua prospettiva unilaterale, con l’autoinvestitura di guardiana implacabili della Resistenza, della storia, della Costituzione, della legalità, dei diritti, e di tutto quello che può supportare o essere supportato dalle sinistre e dalle affinità elettive.

 

 

Fedele al verbo togliattiano, Anpi ha chiesto e ottenuto nel 2014 di entrare nelle scuole con un accordo col governo per portare il verbo dei partigiani che quasi non ci sono più, e in regime di monopolio, per spiegare, esplicare, raccontare, puntualizzare, inquadrare e, naturalmente, insorgere nella caccia ai fantasmi dei fascismi che ne giustificano l’esistenza statutaria. Il ministro Giuseppe Valditara, di professione romanista e quindi abbastanza addentro alla gestione delle fonti e delle verifiche storico-giuridiche, manifesta non l’intenzione di non rinnovare quel protocollo, ma di aprirlo al pluralismo, e che ti fa Anpi? Insorge, la sua specialità. Per lesa maestà.

Ora, chiunque di buon senso, di buone letture e di buona informazione, sa bene che Fiap e Fivl non si sentono mai e non insorgono mai sulle questioni che vedono costantemente in prima linea Anpi mostrare il petto onusto di medaglie e il collo ornato dal fazzoletto tricolore. Ecco, Fiap e Fivl non vanno nelle scuole col ditino all’insù e la matita rossa (niente blu) dei maestrini della memoria, e sarebbe un bene che lo facessero, per ricordare che la Resistenza non è un monolite ma ha avuto tante sfaccettature e tanti colori, che i pozzi della storia vanno depurati dalle scorie e dai sedimenti e non inquinati con l’ideologia da un tanto al chilo, e che se dopo ottanta anni stiamo ancora a parlare e a ricordare quel che è stato ci sarà più d’un motivo.
Non è monopolio di nessuno, se ha ancora un senso la memoria condivisa e se la si vuol davvero (ri)costruire riconoscendosi. E magari osservare che il fazzoletto tricolore dell’Anpi non è neppure come le noccioline che trasformano Pippo in Super Pippo: non basta indossarlo cantando Bella Ciao (peraltro mai cantato dai partigiani, perché creazione apocrifa) per trasformarsi all’istante in storici, costituzionalisti, giuristi, politici, moralisti, censori. E men che meno in monopolisti della storia e della verità.