C’era un’edizione del vangelo delle Paoline con la copertina rossa, l’immagine di Cristo con un libro aperto e su quel libro le parole: «Io sono la via, la verità e la vita». Sono prese dal vangelo di Giovanni. È Gesù che durante l’ultima cena parla a Tommaso, l’apostolo che più fatica a capire e a credere ai misteri divini, dunque il più umano e “moderno” tra gli undici rimasti (Giuda è da un’altra parte, sta trattando per i trenta denari). Presto le strade del maestro e dei discepoli si separeranno. Come potremo ricongiungerci a te? gli chiede Tommaso. Il Nazareno gli risponde con quelle nove parole, nelle quali ci sono la forza e la certezza del messaggio del cristianesimo.
Chi oggi cerca qualcosa di simile nella Chiesa, non lo trova. Ora c’è il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, che intervistato sul Corriere della Sera uscito alla vigilia di Natale dice: «Il Vangelo non è un distillato di verità. Il Vangelo è legato alla vita, all’umanità, all’incontro». La prima frase, a memoria, non ha precedenti, e se presa sul serio (si può non prendere sul serio il capo dei vescovi?) qualche conseguenza dovrebbe averla. E magari una spiegazione.
Se la verità non è scolpita nei vangeli, dunque negli atti e nella predicazione di Cristo, cosa significa quel passaggio di Giovanni? Qual è il senso dell’immagine di Gesù con quel libro aperto e quelle nove parole nei mosaici delle nostre chiese? E soprattutto: la Chiesa di Francesco e Zuppi ha ancora qualche certezza da trasmettere ai fedeli e ai dubbiosi, quelli che si stanno allontanando dall’ovile o che magari vorrebbero avvicinarcisi?
Perché – e lo si scrive senza presunzione, ma con profondo disorientamento – ciò che si capisce è che non ci sono più parole scolpite, fossero pure quelle dei vangeli. Che questa Chiesa non abbia alcunché di resistente ai secoli da tramandare. E che fatichi, al punto da sembrare spesso imbarazzata, nell’affrontare quello che davvero la distingue da tutte le ong e le associazioni filantropiche del mondo: il tema della trascendenza. Una Chiesa che si percepisce assediata dalla modernità e reagisce di riflesso proclamandosi orizzontale, aperta agli uomini di tutte le fedi e all’ecologismo, all’attivismo di Luca Casarini, all’umanità e agli incontri di cui parla Zuppi, e in tutto questo pare aver perso la sua tensione verticale, lo sguardo verso l’alto.
Persino quando prova a spiegare il mistero della resurrezione dei corpi, il cardinale si affida alle parole di Fabrizio De André: «Mi cercarono l’anima a forza di botte». È la storia di un blasfemo ucciso da «due guardie bigotte», cantata da chi ha scritto Il testamento di Tito, che fa a pezzi tutti i dieci comandamenti, uno dopo l’altro. Grandi poesie in musica, ma in tempi non lontani l’insegnamento della Chiesa sulla blasfemia, i comandamenti e tutto il resto era un altro, molto diverso. Chi legge Zuppi ha il diritto di restare confuso e chiedersi per quale motivo, dopo due millenni di santi, papi, martiri e profeti, un sacerdote del suo spessore non trovi parole migliori di quelle del cantautore genovese.
LA DISTANZA DA CAFFARRA
Sulla benedizione delle coppie omosessuali (e non solo) è evidente la distanza che lo separa dal suo predecessore a Bologna, il cardinale Carlo Caffarra, il quale scrisse che «è impossibile ritenersi cattolici se in un modo o nell’altro si riconosce il diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso». Di lui Zuppi dice che «era un sant’uomo, rigoroso, preoccupato che la gente non capisse con chiarezza il messaggio, e quindi voleva che il Papa dicesse come si fa, indicare le regole...». La filosofia di Zuppi è un’altra: «La regola c’è, ma papa Francesco si raccomanda di renderla efficace nella diversità delle situazioni». Cosa significhi in pratica, lo ha mostrato il 20 dicembre il gesuita statunitense James Martin, caro a Bergoglio, benedicendo a New York l’unione tra due uomini. Fatta «secondo le nuove linee guida stabilite dal Vaticano per le coppie dello stesso sesso», ha spiegato. Chi guarda perplesso simili rivolgimenti fa presto a confrontare queste parole con quelle scritte in un libro del 2004 da Joseph Ratzinger, il grande avversario della deriva relativista della Chiesa e dell’Occidente.
«Paradossalmente», sosteneva il futuro pontefice quando era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, «gli omosessuali chiedono che sia conferita alle loro unioni una forma giuridica, che sia più o meno equiparata al matrimonio. In questo modo si esce dal complesso della storia morale dell’umanità che, nonostante la diversità di forme giuridiche espresse, non ha mai perso di vista che il matrimonio, nella sua essenza, è la particolare comunione di uomo e donna, che si apre ai figli e così alla famiglia». «Le conseguenze», concludeva, «possono solo essere estremamente gravi». Parole su cui si può concordare o no, ma che forniscono un insegnamento chiaro. Al punto che sembrano venire da un’altra epoca, quella in cui la Chiesa aveva la forza e l’orgoglio di comunicare verità eterne, su questo ed altri temi. Cosa è successo in appena due decenni? È della stessa Chiesa che stiamo parlando?