Dramma a sinistra: trent’anni dopo i fatti, i compagni non hanno ancora capito come mai persero le elezioni del 1994. È questa la morale che si ricava dall’intervista - sconcertante per il suo candore- rilasciata ieri da Achille Occhetto al Corriere della Sera.
L’ex segretario del Pds è stato interpellato a proposito del faccia a faccia con Silvio Berlusconi che si tenne su Canale 5 alla vigilia di quel voto. Lascio da parte l’aspetto- si direbbe oggi- armocromistico della rievocazione: Occhetto, infatti, non solo rivendica l’orrido vestito marrone che indossò nella circostanza, ma aggrava la situazione affermando che l’abito «aveva tanti colorini dentro» (sic), e spiegando di averlo comprato in fretta e quasi per caso, visto che il negozio dove era passato non aveva un vestito grigio (e sarebbe stato un errore pure presentarsi in grigio, ma lasciamo perdere).
Niente, anche su questo terreno- solo apparentemente laterale - non c’è proprio speranza: tre decenni dopo, Occhetto non sembra ancora in grado di rendersi conto del fatto che andare vestito in quel modo sia stato l’anticamera del suicidio. Già al primo minuto di gioco, alla prima inquadratura, i telespettatori videro infatti - divisi da Enrico Mentana- da una parte un burocrate addobbato come un funzionario del partito comunista albanese e dall’altra un drago della comunicazione, della modernità e dell’immagine come Berlusconi. Ed ebbero subito la conferma visiva di ciò che già pensavano: gli occhi dissero a milioni di italiani che quello che già sentivano nella mente e nel cuore era ultraverosimile. Da un lato, c’era una speranza di libertà; dall’altro, una feroce cappa burocratica.
Ma archiviamo la (pur fondamentale) questione di immagine e passiamo ai contenuti. E qui - a trent’anni di distanza - la notte si fa ancora più buia per Occhetto, che bolla come “fake-news” le due carte più efficaci giocate da Berlusconi in quella circostanza.
Eccole qua, nella ricostruzione occhettiana. La prima: «Evocò il pericolo del comunismo. Il muro di Berlino era caduto, avevo fatto la svolta della Bolognina. Non c’era più il comunismo, ma Berlusconi parlava come se ci fossero i cosacchi del Don che si abbeveravano nelle fontane di Roma». La seconda: «Il milione di posti di lavoro. Non sapevo come replicare. (...) Ho spiegato dopo il nostro progetto: lo sviluppo a breve e lungo termine dell’economia italiana».
E qui devo confessare ai lettori il mio sconforto. Ammetto di nutrire un piccolo senso di colpa verso Achille Occhetto, a cui nei primi anni Duemila, in una trasmissione tv - ero giovane e con i freni inibitori poco sotto controllo - indirizzai una battuta spiacevole, della quale ancora mi pento (gli dissi: «Lei è bollito», e lui ci rimase giustamente malissimo). Da allora, pur nel sistematico dissenso, ho sempre cercato di leggere con un supplemento di rispetto e attenzione le sue interviste. Ma qui mi sono veramente cadute le braccia. Ma come? Ancora non capisce che proprio il pericolo comunista fu la chiave di quella campagna elettorale? Non - sia chiaro - il rischio di un’invasione dell’Armata Rossa: non era questo il punto. Ma la parte maggioritaria della società italiana aveva ben chiaro il fatto che, una volta spazzate via da Tangentopoli le forze del pentapartito (Dci-Psi-Psdi-Pli-Pri), il Pci-Pds, salvato dalle inchieste, era pronto a prendersi tutto in quel 1994.
In quel momento non c’era un solo segmento del potere italiano che fosse ostile a una sinistra che si credeva già vincente: sindacati, Confindustria, Rai, ovviamente magistratura. Mancava solo la formalizzazione della presa di Palazzo Chigi: e i compagni erano talmente sicuri di farcela che lo stesso Occhetto aveva parlato di una «gioiosa macchina da guerra». Ecco, Berlusconi fu votato perché apparve - e fu - l’argine contro quella vittoria annunciata. Eppure, ventinove anni dopo, incredibilmente, quel sentimento di superiorità della sinistra ancora traspare da un dettaglio perfino risibile dell’intervista di ieri, quando Occhetto ricorda, durante l’intervallo di quel faccia a faccia televisivo, di aver visto «Berlusconi che consultava preoccupato i suoi appunti.
Gli sono andato vicino per dargli conforto: “Non ti preoccupare, stai andando benissimo”». Ora, ignoro se lo scambio sia davvero avvenuto, ma la versione occhettiana dà tragicamente la sensazione di una totale inconsapevolezza: ve lo immaginate il funzionario “albanese” di prima col vestito marrone che va a confortare il drago della comunicazione (che nel frattempo lo sta divorando)? E qui si arriva al secondo aspetto che tuttora il povero Occhetto non comprende, e cioè la promessa berlusconiana del milione di posti di lavoro. A chi ha una mentalità - qui ci vuole comunista, non passa nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea che si vada a votare anche per un sogno, una speranza, un progetto di cambiamento. E che, tra un candidato che offre un po’ di luce e uno che vende solo prospettive di tasse e manette, le persone normali e non ideologizzate tendano a respingere il secondo e a premiare il primo. Trent’anni dopo, siamo ancora lì: ma c’è chi fa fatica a elaborare il lutto politico, e a comprendere come andarono le cose. E - realisticamente come continueranno ad andare.