Cercasi erede del Cav

Offerta a Renzi: il Pd ti odia guarda a destra

Lucia Esposito

  di Marco Gorra Già che la commistione tra pallone e politica risulta da lungo sdoganata, sarà scusabile ricorrervi per sostenere che Matteo Renzi ha le carte in regola onde essere per il centrodestra quel che Franco Baresi fu per il Milan. Ovvero un formidabile giocatore finito a portare gloria ad una squadra il cui principale merito fu di soffiarlo alla compagine avversa che non ne aveva intuito le potenzialità.La vicenda calcistica è nota, ed avviene quando Matteo Renzi è un neonato. Anno 1975, due fratelli di nome Giuseppe e Franco Baresi sostengono un provino per l’Inter: i selezionatori nerazzurri, incappando nella topica della vita, tengono il primo  e mettono alla porta il secondo, trovandolo inadatto e fisicamente inadeguato. I rivali storici del Milan, intuite le potenzialità dello scartato, lo accasano tosto in rossonero. Risultato: vent’anni di carriera straordinaria, trofei a raffica e un posto di diritto nella storia dello sport. Niente male, per uno che nemmeno si voleva far giocare. Tacchetti a parte, nei panni del celebre difensore centrale lo sfidante di Pier Luigi Bersani calza a pennello. Così come a pennello in quelli dell’Inter calza il Partito Democratico. E, soprattutto, così come a pennellissimo - e l’organigramma societario c’entra fino ad un certo punto - in quelli del Milan calza il Popolo della libertà. Il quadro è chiaro: sopportato con insofferenza un lungo periodo di prova, i dirigenti del Pd-Inter si stanno lambiccando per trovare il modo di non fare esordire Renzi-Baresi in prima squadra, primariamente per tacitare i mugugni dello spogliatoio e dei soliti senatori. Il giovane, che i novanta minuti nelle gambe ce li ha più di tanti titolari, scalpita e cerca di farsi largo a gomitate nonostante la palese ostilità dell’ambiente e di buona parte della curva, debitamente sobillata. Alla finestra sta, spettatore assai interessato, il Pdl-Milan. Fuor di metafora: la principale preoccupazione del Pd è quella di non far toccare palla a Renzi. Il motivo è presto detto: il sindaco di Firenze rappresenta un elemento di rupture che un partito come il Pd, costretto come è a campare con un occhio sempre vigile sul bilancino degli equilibri della nomenclatura, semplicemente non può permettersi. Per rendersene conto, basta tenere presente come il solo annuncio della candidatura di Renzi alle primarie abbia sortito l’effetto di mandare a gambe per aria la spartizione delle poltrone post-voto (Bersani premier, Veltroni alla Camera, D’Alema al governo e Franceschini al partito) faticosamente assemblata a colpi di Cencelli nelle scorse settimane. Non bastasse il toccarli sul vivo (cioè sui posti), Renzi ha agli occhi del milieu democratico la colpa di avere idee intollerabilmente liberali, lontane dal berlinguerismo di ritorno professato dai luogotenenti bersaniani. Lo sprezzante anatema di «paninaro» scagliatogli addosso dal responsabile Cultura del partito Matteo Orfini testimonia, oltre alla sorprendente capacità di sopravvivenza in tante teste progressiste di certi tic anni ’80 vagamente anancronistici, quanto per il quartier generale democratico la lotta contro il corpo estraneo del renzismo vada, se del caso, combattuta anche a colpi di ideologia.  E non che con gli elettori gli vada meglio: la base del Pd, gente che pure fa mostra di considerare il mitico «rinnovamento» il fine ultimo della politica, si fa stare Renzi parecchio sul gozzo. Decisiva motivazione: «È andato a trovare Berlusconi ad Arcore». Se i dirigenti riescono a mascherare la propria caccia all’uomo da contesa sulle idee (c’è pur sempre il fantasma del riflusso da esorcizzare, no?) l’elettorato al solito va meno per il sottile, accusandolo direttamente di intelligenza col nemico. Detto questo, si fatica a capire quale interesse abbia Renzi a giocarsi la propria partita in territorio ostile e col pubblico contro (per tacere dell’arbitro che le sta studiando tutte per trovare un meccanismo delle primarie che lo penalizzi al massimo). Così come si fatica a capire come il Pdl non si sia almeno posto il problema di resistere alla tentazione di fare ponti d’oro al nemico del nemico. Da qui in avanti si sconfina fatalmente nella fantapolitica, se non altro perché ai già non tetragoni equilibri del Pdl tutto serve fuorché ulteriori scossoni, specialmente se non domestici. Eppure, i dati si mettono in fila da sé. C’è la stima del patron (il Cav non ha mai fatto mistero di essere rimasto assai favorevolmente impressionato dal ragazzo). C’è un pedigree liberale che non sarà da reincarnazione di Von Hayek ma che metà della classe dirigente pidiellina può solo sognarsi. C’è un notevole potenziale quanto a segnale di rinnovamento, l’unica faccia nuova a sinistra da decenni che sbatte la porta sancendo l’ontologica non redimibilità del Pd. C’è la tabula rasa dei giochetti e dei tatticismi pre e post elettorali (detto fuori dai denti: qualsiasi pregiudiziale antipidiellina avanzabile da Pier Ferdinando Casini perderebbe ipso facto ogni ragion d’essere). C’è insomma, al di là dei fisiologici terremoti che una mossa del genere comporterebbe, un colpaccio come nella seconda repubblica mai si è visto. Idea visionaria destinata a finire nel nulla? Forse. In politica le rivoluzioni hanno vita difficile, e quasi sempre il realismo e il breve periodo hanno la meglio: i politici pensano alle prossime elezioni e gli statisti, se ce ne sono, pensano alle prossime generazioni a debita distanza dalle stanze dove si prendono le decisioni. Mica come nel calcio, dove alle volte succede che le visioni vengano prese sul serio e si decida che quel ragazzino scartato con frettoloso sussiego dalla squadra avversaria un’opportunità se la merita. E le coppe dei Campioni, hai visto mai, finisci per vincerle anche così.