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Il re dei manettari messo in isolamento da Bersani e Vendola

Tonino costringe l'Idv fuori dal patto dei progressisti. A forza di inseguire Grillo rischia di restare fuori dal Parlamento

Giulio Bucchi
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di Francesco Specchia Oh, com'è lontano il tempo in cui, a metà tra Shakespeare e Nanni Moretti, un Pier Luigi Bersani divorato dai rovelli interiori, sgualcito nei sogni e nell'aspetto, tornava a Canossa - leggi Vasto - a farsi strattonare da Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. Oggi, soltanto un anno dopo, la foto di Vasto è una decalcomania polverosa. Lo sgualcito è Di Pietro. Bersani, con un colpo di lombi, prima dello scontro con Renzi ha disertato il convegno Idv  e, con l'agenda Monti brandita come messale laico ha deciso le alleanze per un prossimo «patto dei progressisti» tra due settimane. Nel Patto ci sono dentro Nichi Vendola (Sel) e Riccardo Nencini (Psi). Non c'è, appunto, Di Pietro. E tenete conto che Vendola con l'imprescindibile agenda Monti ha già annunciato che ci farà il rogo dei libri stile Fahrenheit 451. Di Pietro è fuori dall'alleanza del centrosinistra per il suo scontro con Napolitano; perchè «la distanza è incolmabile, gestisce il suo movimento con metodi non dissimili da Grillo e Berlusconi» l'attacca Enrico Letta che di solito non s'incavola mai e se lo fa ora dev'esserci un motivo; perché «a forza di passi indietro Di Pietro è sparito all'orizzonte», chiosa Bersani mettendo una pietra tombale su qualsiasi tentativo di «ripercorrere lo stesso cammino». Ora, noi di Tonino, pur rispettandolo (per dire: è l'unico che s'è smazzato a raccoglier firme per cancellare le Province), non riusciamo proprio a capire la strategia. Anche perchè  la cambia ogni cinque minuti.  Tonino Di Pietro è un Talleyrand che ragiona di viscere e di telecamere, troppo spesso una tacca al di sotto delle proprie ambizioni. Preso da quella che il Corriere della sera chiama la  «sindrome di  Bertinotti»  l'uomo vive nell'incubo di assottigliarsi a tal punto da non entrare più in Parlamento. Certo, gli accadde già nel 2001, quando l'Idv restò fuori da Camera e Senato con il 3,97%, sotto lo sbarramento che era al 4%. E, ad essere onesti, quando aveva soltanto il 2% egli fu l'unico, quasi masochisticamente, a dare battaglia per lo sbarramento al 5%. Ma, da qualche tempo, la sua strategia è appunto fuori sincrono. Un'escalation di decisioni in contraddizione l'una con l'altra. Prima si propone come  il Torquemada del berlusconismo; poi confessa d'essere l'evoluzione genetica dei buoni vecchi democristianoni d'una volta, e di cercare il dialogo tra i popoli. Dice di sé che vuole intercettare i voti moderati in fuga dal berlusconismo, che vuole strutturare l'alleanza di centro-sinistra però già strizza l'occhio a Casini in vista di un possibile approdo nel “grande centro”. Afferma che la politica deve riformarsi. Dopodiché salta alla gola di Mario Monti, l'unico moderato non politico in circolazione. Nel frattempo, s'accorge che Vendola gli frega i titoli dei giornali e cerca di anticiparlo a sinistra, referendum su Articolo 18 con tristissima foto al Palazzaccio tutto compreso. Alchè s'avvede che il Movimento 5 Stelle gli sta fottendo gli elettori sotto gli occhi. E a quel punto si mette ad inseguire il grillismo con affanno, cercando un accordo con l'ex comico che lo svincoli del tutto da Bersani; poi, una volta che Grillo pur dandogli del brav'uomo gli consegna il due di picche Tonino riparte lancia in resta: «Beppe Grillo ora fa quello che io già facevo dieci anni fa. Ma in questi anni ho imparato che oltre alla protesta si devono trovare anche delle soluzioni concrete per affrontare i temi del Paese. Protestare è facile, governare è molto più difficile...». E si propone come vera alternativa, girando i tacchi ancora verso il Pd che precedentemente aveva pestato a sangue: «La foto di Vasto oggi è sbiadita perché alcuni hanno pensato di poterla superare. In realtà credo sia ancora necessaria, ma insufficiente. Non si tratta solo di mettere insieme dei nomi, ma di costruire una coalizione riformista basata su un programma chiaro e su quello chiedere il voto ai cittadini». Cioè: Bersani, riparliamone, ho cambiato idea. Naturalmente, en passant, attacca Renzi.  Ovvio che poi perfino un postdoroteo come Letta s'incazzi. E che si metta a corteggiare, a Vedrò nella sua keremesse dell'Italia del futuro, Giggino De Magistris, il clone legalitario di Tonino solo un po' più giovane. Troppe svolte, caro Tonino, fanno venire la labirintite, con tutto il bene che ti si può volere. Gli elettori, anche quelli potenziali non capiscono. E se non capiscono votano Renzi, che almeno è faccetta nuova. Il problema è che l'Idv  rischia ora di vanificare l'ottimo risultato ottenuto alle Europee e alle Regionali (circa l'8%) attraverso tre fattori che sono ancora sul grembo di Giove: la legge elettorale, la mancata (o riuscita) alleanza con il Pd, l'aggressività del Movimento 5 Stelle che, appunto, s'abbevera allo stesso bacino elettorale. Ad appannare l'immagine del partito, poi, ci sono anche le cattive scelte degli uomini d'apparato. Scilipoti e Razzi politici venuti dall'impossibile prima; e ora l'ex capogruppo regionale emiliano Paolo Nanni indagato dalla Procura per peculato e gentilmente consigliato di passare al Gruppo Misto, invece di essere preso a scarpate.  Per tornare sugli scudi Tonino Di Pietro, con inusitato coraggio, chiude la sua Vasto dichiarando: « Di essere pronto a governare, siamo noi l'alternativa...». E nel  suo discorso conclusivo annuncia di voler togliere il suo nome dal simbolo del partito. «Essere dell'Italia dei Valori non è più essere enfants di Di Pietro, in queste prossime politiche vedrete ancora il mio nome ma dopo sul simbolo ci sarà Alleanza per l'Europa». Bene. Ma per entrare di prepotenza, di nuovo, nel dibattito politico è costretto (non avendo peraltro torto) ad attaccare Marchionne e i 2,5 miliardi euro che la Fiat s'è ciucciata nell'ultimo secolo solo dallo Stato. Oggi l'Idv è valutata al 5,5%. Ma non si capisce ancora dove vuole andare a parare...

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