Umberto Bossi: "Salvini sbaglia sui rom"
Mai capitata un'intervista come questa che ho fatta a Umberto Bossi. Si è svolta in un corridoio laterale di Montecitorio, detto dei «fumatori», dove Bossi si è presentato con l'accendino in mano e il sigaro all'angolo della bocca. L'ho fatta - e qui sta l'unicità - in dieci minuti secchi mentre, con chiunque altro, non sarebbe bastata un'ora. Le premesse, come racconterò, erano invece opposte: rischiava di durare un'infinità per le fisime del Senatùr. Con lui ho sempre patito un calvario. Nei primi anni '90, andai nella sua casa di Gemonio, in quel di Varese, alle cinque del pomeriggio, secondo appuntamento. Manuela, sua moglie, mi fece accomodare nel salottino, poi sparì nella cucina attigua. I due locali erano divisi da un basso cancelletto che, come poi capii, impediva ai loro marmocchi - Renzo e Roberto Libertà (Eridano Sirio, classe 1995, non era ancora a questo mondo) - di sconfinare dagli ospiti. Girai a lungo i pollici, distratto solo dai ragazzini che mi spiavano curiosi dalle grate del cancelletto. Bossi si presentò con comodo un'ora dopo, strusciando su due pezze che la signora Manuela gli aveva imposte per non sciupare con le suole il pavimento. Uscii che brillavano le stelle. Un'altra volta avevo fissato con Bossi un incontro di mattina al casello milanese dell'Autostrada Serenissima per andare con lui a Vicenza dove aveva un comizio. Caricato sull'auto blu, gli avrei fatto con comodo un'intervista. Invece, mi bidonò costringendomi a raggiungere la città del Palladio con mezzi miei, aspettare i comodi suoi e concedermi finalmente la chiacchierata all'ora di cena. Sedici ore di sbattimenti. L'incontro odierno era nato sotto auspici anche peggiori. In questi giorni, a Montecitorio ci sono votazioni a ripetizione. Il Senatùr, ligio al dovere, non ne manca una e rifiuta di fissare un orario per un incontro. Se voglio intervistarlo, devo farlo a spizzichi, tra una votazione e l'altra. Le pause essendo minime, calcolavo un giorno di bivacco alla Camera. L'accordo con la superlativa addetta stampa della Lega, Nicoletta Maggi - una santa -, è di profittare intanto dei cinque minuti prima della seduta per qualche domanda. L'incontro a tre - Bossi, Nicoletta ed io - avviene, come ho anticipato, nel corridoio fumatori. Lei si siede in modo da avere un'ampia visuale sul Transatlantico, mentre io comincio l'intervista col Senatùr. Me la stavo prendendo comoda, convinto che per arrivare in fondo ci avrei messo una vita, quando Nicoletta annuncia: «Vedo che Giachetti, il vicepresidente che deve guidare l'Aula, arriva solo adesso. Ora che finisce di sistemarsi, ci vorranno dieci minuti». Ci scambiamo uno sguardo d'intesa. Se mi sbrigo, faccio l'intervista in un colpo solo. Dipende dalla capacità sintetiche di Bossi. E Bossi si rivela un fenomeno. Mai visto uno così lucido. Risposte secche, nessun fronzolo. Dice e tace. Un oracolo. Da condottiero della Lega a padre nobile. Le sta stretto? «Ci si abitua a tutto. La Lega è la mia creatura e non voglio fare casino. Il fatto però che non si parli più di federalismo e indipendenza è un problema». La Lega, che voleva staccarsi da Roma, ora vuole conquistarla. «Quello è Salvini. Il Nord versa a Roma cento miliardi di euro a fondo perduto, che non le vengono restituiti. Per schiacciare un foruncolo bisogna avere due dita». Di che parliamo? Chi è il foruncolo e chi le dita? «Il foruncolo è Roma e le due dita che lo devono strizzare sono il Nord e il Sud insieme. Questo immagina Salvini. Bisogna però vedere se è possibile. Il Sud è sempre stata centralista per partecipare al banchetto. Anch'io ci ho provato ad aprire al Sud, senza riuscirci». Dubita del progetto di Salvini di estendere la Lega al Mezzogiorno? «Nord e Sud dovrebbero accordarsi senza la mediazione dello Stato italiano. Devono stringere intese tra Regioni, saltando Roma». Direbbe ancora: ci sono centomila bergamaschi armati pronti alla secessione? «Allora era così. Volevano la libertà a tutti i costi. Oggi quella volontà è stata soffocata con le procure. Salvini ha perciò preso un'altra via. È andato al Sud». Com'è Matteo Salvini? «Mi pare che abbia delle qualità e si stia facendo una discreta esperienza. Finora ha fatto crescere la Lega nei consensi. Ma solo nei consensi. Bisogna vedere se servirà alla libertà dei popoli. Spero sia così». Lei segretario, avrebbe scelto Salvini come erede? «Non era previsto che me ne andassi. Mi ha fatto uscire la magistratura. Mi hanno sparato. Così, per non danneggiare la Lega, ho pensato di lasciare. (Quando si tocca il punto avvelenato della sua defenestrazione - accadrà ancora una paio di volte durante l'intervista -, Bossi si sforza visibilmente di non lasciare trapelare la sua convinzione di essere stato vittima di una congiura interna, tramite servizi e toghe)». Nella Lega, Salvini ha cancellato tutti, compreso l'onnipresente Bobo Maroni. «È stato lui sostenere Salvini. Ma ci sono ancora tutti. Quando sarà il momento, verranno fuori. Ora, però, spero che nessuno voglia danneggiare Salvini». La rottura con Flavio Tosi è ricomponibile? «Tosi aveva già preparato tutto per uscire. Difficile stare con chi puntava danneggiarci. Mi dispiace che chi lavora per la Lega non si affezioni e voglia farle male. Tosi, che aveva fatto fuori molti, ora è stato fatto fuori lui. Chi di spada ferisce, di spada perisce». Il lepenismo di Salvini le sta bene? «Vengo da una famiglia socialista. Mio nonno è stato partigiano combattente. Nonna Celesta è stata suppliziata con una bicicletta da tortura: l'hanno fatta pedalare tanto velocemente da spaccarle il ginocchio. Io sono per i valori di libertà». Salvini ha anche stretto alleanza con Casa Pound. «Lo ha fatto per contrastare i centri sociali che gli impedivano di parlare. Salvini non è fascista. È stato un modo di neutralizzare quelli lì, non una scelte ideologica». Salvini vuole le ruspe per spazzare via i campi rom. «È sicuramente un problema, con le attuali difficoltà, mantenere anche i rom. Salvini, però, non ci ha ragionato bene sopra. Ha avuto un moto di stizza. Infatti, non volendo nessuno avere i rom tra i piedi, nessuno gli affitterebbe una casa. Quindi, se gli distruggi i campi, quelli vanno sotto i ponti ed è anche peggio». Allora? «Dovresti non farli entrare. Se no, almeno un campo ci vuole». La Bossi-Fini che regolamentava l'immigrazione è stata ripudiata perfino da Fini. «Fini non si è mai sbattuto per farla. Delegava un magistrato a discuterne con me. Ma era necessaria perché già si vedeva la crisi economica. E senza lavoro, è impossibile integrare. Il lavoro è il collante». Oggi, il flusso è incontrollato. «Gli attuali governanti non ragionano. Senza lavoro non si fa immigrazione. Il Paese salta. Quando ci fu l'immigrazione interna, il sistema tenne perché il lavoro c'era». È stato umiliante per lei lasciare la guida della Lega per i noti fatti familiari? «Non furono fatti familiari. Ma una trappola, io penso, montata dai servizi. Per me, è stata una gogna con centinaia di giornalisti davanti casa». Una gogna un po' organizzata? «Un po' tanto. Un po' tutto». Perché l'hanno voluta intrappolare? «Chi rischia di perdere i vantaggi che ha - e la Lega non scherzava - cerca di buttarti giù». Il Cav è agli sgoccioli? «Spero di no. I voti è lui che li ha. Ma deve ricucire con Fitto. Se no, vince chi ha messo in piedi l'attacco contro di lui». Che pensa del Cav? «È uno che mantiene la parola. I voti per il federalismo fiscale me li ha fatti avere». Renzi è l'avvenire? «È già il passato. Non lascerà traccia». Bossi si alza, afferrato dall'ansia di correre in Aula. «Un'ultima domanda -dico-. Ripensa mai a Daniele Vimercati?». Daniele, mio collega, ucciso da una leucemia fulminante a 45 anni, nel 2002, è stato il primo biografo di Bossi che al suo funerale pianse ininterrottamente. «Lo penso - risponde -. So che non è più in quella tomba bassa che non mi piaceva del cimitero di Vertova (in Val Seriana nel bergamasco, ndr). L'hanno messo meglio. Per i trent'anni della Lega ho dato una rosa rossa al federale di Bergamo. “È per Daniele. Portagliela”, gli ho detto». E, con un brusco saluto, Bossi se ne va, la voce incrinata. Giancarlo Perna