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Fabrizio Cicchitto, la sentenza definitiva su Martina e Di Maio: "Vi spiego perché sono due storditi"

Gino Coala
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Non possiamo esimerci dal fare i conti con le posizioni veramente paradossali espresse in questo periodo post elettorale dallo «statista Di Maio» e anche da alcune di quelle emerse nel Pd. Fin dall' inizio Di Maio si è mosso come se il 32 % fosse un sostanziale 51 %: la cifra che mancava in termini di voti e di parlamentari doveva essere surrogata «dagli altri» perché per una sorta di investitura divina, intermediata dalla Casaleggio e Associati, Di Maio doveva essere nominato premier. Leggi anche: Martina salvato dai renziani: resta il reggente del Pd La prima mossa di Di Maio ha avuto in un certo senso una logica politica e programmatica perché egli e il M5S si sono rivolti a Salvini, alla Lega, al centro-destra. A sua volta Salvini ha comunicato che egli si faceva forte del 18% ottenuto, ma che non era così velleitario da rompere con Berlusconi e con la Meloni perché il centro-destra nel suo complesso aveva raggiunto il 37%: anche il 37% non era il 51% e per questo Salvini seguiva un doppio binario, per un verso cercava di realizzare un' intesa con Di Maio per altro verso cercava di egemonizzare il centro-destra e di ridimensionare Berlusconi il più possibile, ma senza rompere con lui. A quel punto il quadro per Di Maio e per il M5S era preciso: visto che il 32% non era il 51% l' unica via ragionevole era quella di realizzare un compromesso con il centro-destra, relativamente comodo per Salvini, più scomodo per Berlusconi. Ma che la direzione di marcia fosse quella fu messo in evidenza dall' elezione della berlusconiana Casellati alla presidenza del Senato realizzata anche con i voti dei senatori grillini. E invece no, a quel punto non solo il guevarista Di Battista, ma tutto il M5S, Di Maio compreso, scoprirono che Berlusconi era «il male assoluto» espressione finora usata per definire il nazi-fascismo, anzi più il nazismo che il fascismo. Ora, era evidente che Salvini, a meno di non essere masochista, non poteva ammettere di essere alleato con l' espressione politica del male assoluto, rompere con esso per diventare subalterno di Di Maio e dei grillini. A quel punto Di Maio, come disse a suo tempo Gramsci, cambiò spalla al suo fucile e non solo si rivolse al Pd, ma addirittura affermò che con Salvini e la Lega tutto era rotto. CAMBIO DI LINEA Così da un giorno all' altro con la consulenza del professore Della Cananea Di Maio inviò al Corriere una lettera nella quale metteva in evidenza, con stilemi fumosi, i punti programmatici potenzialmente comuni con il Pd, cioè con la forza politica definita per 5 anni la quintessenza della casta, contigua alla mafia, subalterna alle banche, serva dell' Ue. In tempi normali un comportamento di questo tipo verrebbe considerato la quintessenza del trasformismo. Ancora più paradossale però è stata la reazione di Di Maio quando dall' interno del Pd Renzi gli ha detto di no ad una collaborazione o ad un sostegno del Pd ad un governo grillino. Come un bambino capriccioso al quale sia stato rotto il giocattolo Di Maio ha battuto i piedi per terra, ha proferito oscure minacce («la pagheranno») e allora si è rivolto alla Lega, ma solo per rifare le elezioni a giugno. Cioè Di Maio è passato dall' andreottismo più spinto (la linea dei due forni, quasi che la Lega e il Pd siano la stessa cosa sul piano politico e programmatico) all' integralismo più assoluto (elezioni subito). Detto ciò però l' analisi dei comportamenti paradossali sarebbe incompleta se non riguardasse anche il Pd. Ora noi, anche recentemente, non abbiamo sottaciuto le critiche a Matteo Renzi e agli errori che hanno portato il Pd a passare del 40% delle europee del maggio 2014 al 18% attuale. Lo stesso Renzi si è dimesso da segretario del Pd. Passare però da un' esigenza critica e autocritica alla scelta di presentarsi col piattino in mano davanti a Di Maio anche con la disponibilità a fare un governo con il M5S o a sostenerlo dall' esterno, questa, francamente, ci è sembrata una posizione suicida tale anche da complicare molto la vita e la tenuta di quei 6 milioni di elettori che malgrado tutto hanno votato per il Pd. IL NODO DI FONDO C' è chi ha spiegato che dietro a una dichiarazione di un' astratta disponibilità, da negare successivamente alla luce di un confronto sui programmi, c' è il marchingegno tattico per mettere Renzi in minoranza all' interno del Pd. Anche questa però ci sembra una variante del suicidio perché si è data in questo modo a Renzi una carta politica altissima: egli ha avuto buon gioco nel dire che il re Di Maio è nudo e nel negare un sostegno subalterno del Pd ad un governo grillino. L' infantile ed estremista reazione di Di Maio è stata una plateale conferma di quanto questa posizione sia giusta. Ma al di là dei giochi tattici nel Pd c' è un nodo strategico da sciogliere ed è la valutazione di fondo sul M5S dalla sinistra: secondo un' interpretazione i grillini sono un movimento autoritario che con lo slogan della democrazia diretta vuole piegare gli istituiti della democrazia rappresentativa alla guida di un ristretto nucleo di potere imperniato sulla Casaleggio e Associati; secondo un' altra interpretazione invece il M5S è una costola della sinistra un tantino rozza e incolta, che va illuminata e magari egemonizzata dalla superiore cultura politica di Martina, Franceschini, Zingaretti, Emiliano e magari Bersani. Probabilmente oltre i conti con Renzi il Pd deve chiarirsi le idee su questo nodo di fondo. di Fabrizio Cicchitto

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