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Forza Italia addio, anche Giovanni Toti e Giorgia Meloni pensano a un partito

Cristina Agostini
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Il centrodestra è morto eppure ogni giorno ha il suo nuovo modello di centrodestra, una pena manifesta per i leader di un' alleanza sfasciata dalla vittoria elettorale del 4 marzo e più ancora dallo strano governo gialloverde messo su da Lega e MoVimento 5 stelle. Le ultime notizie dicono che adesso è la volta di Giovanni Toti e Giorgia Meloni: il governatore della Liguria, berlusconiano in odore di eresia, e la regina dei Fratelli d' Italia. Leggi anche: "Cosa c'è dietro la rottura con Forza Italia". Salvini, il retroscena: altro che traditore... Non volendo finire schiacciati dalla baruffa tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, non potendo più credere che Forza Italia trovi le energie necessarie per ripensarsi e rinnovarsi, Toti e Meloni hanno intanto deciso di federare idee e aspirazioni comuni. Giovani entrambi, brillanti e con buone esperienze istituzionali, immaginano un futuro post berlusconiano fondato sul civismo dei moderati, sull' operosità della media borghesia conservatrice, con una spruzzata forte di democrazia interna e tanta, tanta pazienza. La pazienza di chi sa di dover attendere l' implosione del partito berlusconiano e la fine della scappatella innaturale tra Salvini e Di Maio. Obiettivo: farsi trovare al posto giusto, nel giusto momento, a presidiare il luogo naturale di un blocco sociale e politico maggioritario nell' Italia profonda. Che poi, a guardare bene, sarebbe lo stesso progetto coltivato dal Cavaliere. Fa fede la lettera inviata due giorni fa a Libero nella quale l' ex premier precisa che la sua Altra Italia è «una vasta area sociale e culturale che esiste nel paese, ed è molto più grande di quanto appare: sono gli italiani seri, laboriosi, moderati, di buon senso, che vorrebbero dalla politica risposte concrete e non slogan o improvvisazioni». In due parole: gli spaventati; coloro che nella supposta egemonia dei grillini benecomunisti vedono l' abbaglio di Salvini e il veleno inoculato in un' Italia rabbiosa sì, ma non così matta da consegnarsi all' improvvisazione o all' algoritmo di Rousseau. Ma stanno davvero così le cose? IL CASO ABRUZZO - Salvini risponderebbe di no. Lui vuol bene a Berlusconi ma ne diffida, lo ritiene mal consigliato da una corte rimasta orfana del suo Royal baby Matteo Renzi, preconizza per il Cavaliere un futuro da gregario in un Nazareno degli sconfitti a trazione renziana e con Emmanuel Macron a fare da puparo parigino per una commedia già vista e già condannata dalle urne. Del resto è lo stesso Salvini, in questa strana e tempestosa estate, a lasciar trapelare il profilo d' un disegno personalissimo, personalistico, finalizzato a svuotare Forza Italia dando briglia sciolta alla nuova Lega patriottica e solitaria. Malgrado le cautele di Giancarlo Giorgetti (l' emisfero filosofico del salvinismo di battaglia), la volontà di correre senza alleati alle prossime regionali d' Abruzzo fa presagire la rottura imminente. Di qui le accuse reciproche di tradimento tra leghisti e berlusconiani, di qui le inquietudini di Giorgia Meloni che non intende salvinizzarsi ma vede nel Cav. un mito ormai incapacitante. Ed ecco spiegata allora la genesi di questo gioco incrociato e stagionale a rifarsi un centrodestra su misura: nazionalista ma garbato con l' Europa, smoderatamente moderato, benignamente d' umiltà vestuto, fermo restando il risentimento quotidiano per l' intemperante Salvini che nel frattempo continua a mietere consensi a petto nudo e sempre carico a pallettoni su ogni aspetto della vita pubblica: dai migranti alla leva militare passando per l' omogenitorialità e senza trascurare il rosario della sera. STATO D' ECCEZIONE - Lì dove il nemico sconfitto, confuso e rabbioso - tendenza Saviano, per capirci - vede germinare una strana forma di clericofascismo putiniano a sfondo pauperista, gli ex alleati di Salvini indovinano invece una strategia spericolata da contenere sul nascere, ribadendo che destra e sinistra esistono ancora e saranno prima o poi gli elettori a richiamare ciascun partito nel suo orizzonte congeniale. L' attuale stato d' eccezione tuttavia suggerisce anche altro: la sindrome dell' assedio vissuta nei piani alti del governo ha una sua ragion d' essere, la speculazione finanziaria incombente potrebbe cementare non soltanto i legami tra i leader gialloverdi impegnati in una lotta furibonda contro il nemico invisibile esterno, ma pure i rispettivi elettori eccitati o illusi dall' agonismo anti establishment dei loro rappresentanti. In questo contesto, almanaccare sul centrodestra che verrà - se verrà - è un gioco serissimo nel quale c' è poco di vero e qualcosa di necessario. di Alessandro Giuli

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