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Enrico Letta, il ritorno: ossessionato da Matteo Salvini, cosa s'inventa contro il leghista

Davide Locano
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Enrico Letta non è ancora tornato sulla scena politica ma già sale in cattedra, fra tivù e giornali, a farci la lezioncina cattodemocratica sulla Patria perduta dei suoi rimpianti. Come scusa, brandisce il libro che ha appena pubblicato per il Mulino: Ho imparato, un freddo sillabario del suo scontento tutto centrato su una presunta turba «di errori e illusioni, tra sovranismi e rottamazioni, che ha portato a un' Italia sempre più ripiegata su se stessa». I protagonisti della narrazione sono i due Mattei: Renzi e Salvini. Il primo è la bestia nera che gli ha soffiato il posto a Palazzo Chigi nel 2014, ingenerando in Letta uno spaventoso monoideismo vendicativo («ho molto rispetto per chi vive un momento di rancore del passato» è l' ultima, derisoria sortita renziana al riguardo). Tutti ricordiamo la famosa immagine del passaggio della campanella tra lui e il nuovo premier, con lo sguardo del predecessore rivolto verso il passato per schivare gli occhi del presente. Leggi anche: Enrico Letta ridicolizza Matteo Renzi Da allora, esule d'oro a Parigi (professore a Science po, nell' Institut d' Etudes politiques che forma la classe dirigente transalpina impegnata da oltre mezzo secolo a fagocitare i nostri interessi nazionali), Letta non ha fatto altro che guardare l' orologio, nell' attesa velenosa che il bullo di Rignano finisse ingannato dalla propria superbia e spazzato via dall' altro Matteo, quello più cattivo: Salvini. Dal referendum costituzionale del dicembre 2016 in poi, catastrofico punto di non ritorno per la banda Renzi, Letta ha cominciato a riaffacciarsi in Italia. Dopo il 4 marzo 2018, disarcionato il segretario del Pd, Enrico si è gettato a capofitto nella stesura del suo Ho imparato: rivendicazione personale di un caso umano e risoluzione strategica della sua ansia da restaurazione. Ma cosa vuole, davvero, Letta? Al momento il suo sforzo maggiore sta nel girovagare in un arrembaggio mediatico e social senza precedenti, fra ospitate nelle comfort zone di Fabio Fazio (Raiuno) o Agorà (Raitre), con incursioni su Repubblica, Corriere e La7. E il libro è appunto un pretesto per riguadagnare centralità e sfogare un sentimento revanscista, poco italiano e molto internazionalista. LA FISSA FRANCESE Introdotto da un' analisi banale sulle cause del trionfo salviniano - «Il problema è che quando si scimmiottano i populisti si aprono quelle fessure che rendono loro più semplice spalancare il portone» - il cuore del messaggio è stolidamente scontato ma soltanto in apparenza: «Affrontare le sfide dell' immigrazione, del declino economico e culturale, della sostenibilità ambientale, per un' Italia davvero protagonista di una nuova Europa». Coerente con la propria funzione storica di apolide con precise obbedienze di rito francese, Letta sogna «un' Italia mondiale». E cioè una non-Italia. La sogna da Parigi, per l' appunto, dove insegna nella cattedra che si è costruito su misura dopo aver fallito alla guida del governo più debole della storia italiana dai tempi di Giovanni Goria e del suo macilento esecutivo pentapartitico (1987-88). SOTTO RE GIORGIO Esattamente di questo parliamo, quando parliamo di Enrico Letta: un tecnocrate di buona famiglia beneficato dall' incarico di formare il governicchio dei 300 giorni voluto nella primavera del 2013 dall' allora presidente Giorgio Napolitano, con l' obiettivo di uscire dallo stallo della non-vittoria di Pier Luigi Bersani mediante un accordo di larghe intese tra il Pd, Forza Italia, Scelta civica, Popolari per l' Italia, Unione di centro, Radicali italiani e frattaglie varie (dall' Union Valdotaine agli autonomisti del Trentino-Alto Adige). Venivamo dall' orribile esperienza del tecnogoverno Monti, ci gettavamo voluttuosamente nel pozzo della legislatura che avrebbe visto nascere il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. I renziani intemperanti battezzarono presto la creatura di Letta come «il governo del cacciavite»: lento e labirintico fino alla paralisi. I berlusconiani se lo fecero piacere fintantoché il Cavaliere, a fine 2013, non fu gettato ai cani ed estromesso dal Parlamento per i suoi guai giudiziari. A gennaio del 2014, Renzi avrebbe aperto le ostilità con il famigerato «Enrico stai sereno» pronunciato nel tinello televisivo di Daria Bignardi. Fu il prologo di un declino annunciato e mai rimpianto dagli italiani, al quale avrebbe tenuto dietro il Patto del Nazareno con Berlusconi. BRUTTA EREDITÀ Del governo Letta, a un primo sguardo retrospettivo, invero non esiste traccia sensibile; quasi che una damnatio memoriae l' avesse espulso come un calcolo renale. Ma se si fa la dovuta attenzione qualcosa esce fuori dal retropalco, e non è piacevole. Tre cosette soprattutto: 1) l' euroaccordo sui salvataggi bancari a spese di risparmiatori, investitori e correntisti (il cosiddetto bail-in) contro il quale s' è scagliato giorni fa l' altrimenti mite titolare dell' Economia Giovanni Tra, e che fu imposto al ministro del Tesoro lettiano Fabrizio Saccomanni (scuola Bankitalia) con la pistola puntata alla tempia dall' omologo tedesco Wolfgang Schäuble; 2) una mostruosa clausola di salvaguardia triennale da 20 miliardi lasciata in eredità al governo Renzi e ingigantitasi sino ai giorni nostri; 3) l'autorizzazione, in seguito a un naufragio, dell' operazione Mare Nostrum che, presidiando il Mediterraneo con navi militari pronte a soccorrere i barconi alla deriva, ha incentivato le partenze dalla Libia. Con questi precedenti alle spalle, c' è da domandarsi che altro voglia infliggerci uno come Letta. Per coltivare una sana diffidenza bisogna sempre ricordarsi del suo pedigree da allievo modello di Nino Andreatta, il ministro del Tesoro che nel 1981 propiziò il divorzio della sovranità politica dal potere monetario della Banca centrale italiana. Ecco, con queste credenziali Enrico Letta è stato ministro delle Politiche comunitarie nel primo governo D' Alema (1998), poi dell' Industria (D'Alema bis e Amato nel 2000-2001), infine sottosegretario alla Presidenza del Consiglio di Romano Prodi (2006). Il suo mondo ideale è governato da euroburocrati come Jacques Delors, presidente della Commissione europea nel decennio 1985-1995. Se proprio deve scegliersi una sovranità, dunque, è quella francofona di Bruxelles. Ha appena dichiarato di sostenere Nicola Zingaretti nella corsa per le primarie del Pd. Il che ha aiutato il turborenziano Roberto Giachetti a recuperare una valanga di voti in poche ore. Scrive ora Letta nel suo libro: «La convinzione più importante è che non c' è niente di più bello che imparare». Ha avuto parecchio tempo per farlo, ma a quanto pare l' ha sprecato. di Alessandro Giuli

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