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Luigi Di Maio, la minaccia a Giuseppe Conte: "Qui comando ancora io"

Maria Pezzi
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Luigi Di Maio vorrebbe essere il Matteo Salvini del nuovo governo giallorosso: impetuoso, autoritario, imprevedibile e incontrollabile dagli alleati. Non ha capito niente. Gli manca il fisico bestiale salviniano per resistere agli urti della vita politica e dominare sui comprimari (almeno fino al mojito fatale); accanto a sé non ha più il debole Giuseppe Conte dei primi quattordici mesi di legislatura, ma sopra tutto si è messo in società con gente esperta e dallo stomaco rivestito di un pelo irsuto da far spavento: il Partito democratico. Luigino ha appena salvato la pelle dalla fallita guerra lampo leghista e dagli effetti della morbida scomunica che gli ha inflitto il padrone e garante Beppe Grillo. Il prezzo da pagare, per sopravvivere non poi così male fra i panneggi damascati della Farnesina, è accettare uno stato di subalternità rispetto al Cavour di Volturara Appula rimasto a Palazzo Chigi e riconoscere agli ex nemici del Pd un ruolo fondamentalmente privilegiato nella maggioranza. Ma Di Maio soffre, perché ritiene ancora l' avvocato Conte un coniglio azzimato uscito dal proprio cilindro nel momento di massima forza contrattuale fra i grillini - avevano appena vinto le elezioni con il 32 per cento dei voti - e perché sul Pd non ha mai cambiato opinione: lo considera il partito di Bibbiano e del malaffare congenito nella sinistra italiana degli ultimi anni, però non è più autorizzato a dirlo e a comportarsi di conseguenza. Il travestimento  - Sicché immagina di poter lucrare sulla necessità trasformandola in un virtuoso trampolino per una seconda possibilità. Di qui il nostalgico travestimento salviniano: la riunione di due giorni fa con la delegazione ministeriale pentastellata (che ha fatto sbuffare il premier e scuotere il testone canuto a Beppe Grillo), le pose radicali a difesa del lavoro svolto nel precedente esecutivo, la rigidità con la quale lui e i suoi pretoriani difendono l' impalcatura dei decreti sicurezza e manifestano la volontà muscolare di governare in deficit. Quando il ragazzo di Pomigliano consiglia ai suoi di dire a quelli del Pd che non devono comportarsi come i leghisti, è in realtà lui per primo che vagheggia strappi istituzionali e impuntature salviniane. Lo schema è noto e fu premiante: Conte faceva il guardiano del barile a Palazzo Chigi e lo scudo umano con i poteri internazionali, il Salvini di turno prendeva l' alleato in contropiede e avanzava come uno schiacciasassi sui dossier meno costosi e più remunerativi in termini di consenso. Uscito dalla palude del Lavoro e dello Sviluppo economico, fallito il tentativo di restare vice premier e di reinventarsi sceriffo buono al Viminale, Di Maio immagina che il ministero degli Esteri possa comunque essere la vetrina ideale per una passerella permanente che lo proietterà un po' dappertutto nel ruolo di protagonista.   Per approfondire leggi anche: Luigi Di Maio, il dramma politico Ma qui casca l' illuso, per l' appunto: nel principato gialloverde Di Maio già sembrava un pulcino spaurito pur avendo le spalle coperte da Grillo e Davide Casaleggio, oggi le cose sono assai peggiorate e dietro di lui c' è il vuoto politico con la fosca prospettiva di dover ricorrere ai centri per l' impiego. Oltretutto Giuseppe Conte è stato nel frattempo rimodellato come uno statista, gode del sostegno di Donald Trump e dell' intero arco costituzionale dell' Eurotecnocrazia; insomma quei pieni poteri evocati improvvidamente da Salvini e che hanno finito per schiantarlo al suolo. Ma quel che più conta è che il Pd, per quanto diviso e ancora impopolare, non è un movimento digitale nato dagli algoritmi rabbiosi di un programmatore informatico: è il prodotto della fusione tra ex comunisti (Ds) ed ex democristiani (Margherita), un partito popolato da figure solide che conoscono la lingua del potere, la grammatica del parlamentarismo e la sintassi del governare i processi politici (spesso male e senza consenso). Alleanza rischiosa - Allearsi con Nicola Zingaretti significa mettersi dentro casa un potente feudatario con il suo corteggio di ex amministratori locali, manager coltivati e tecnici consumati. Aggiungici il convitato di pietra Matteo Renzi con il suo popoloso giglio paesano annidato nei Palazzi che contano, fra parlamentari e banchieri e grisaglie ministeriali, ed ecco che il quadro diventa più chiaro e desolante. Finché ha voluto e potuto, Salvini si è misurato a petto nudo con competitori deboli in un paesaggio burroso nel quale affondava felice, affilato e strafottente. Di Maio, che già di suo risulta improponibile con una felpa indosso, potrà pure indossare la maschera del guastatore ma verrà trattato come un Arlecchino fuori stagione. di Alessandro Giuli

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