Giuseppe Conte, immigrazione: cosa non torna nel suo annuncio sul patto di Malta
Fatto fuori Matteo Salvini, il nuovo governo giallorosso non ha comunque perso il vezzo degli annunci reboanti. In questa fase forse ancora più attento a cercare consenso via social piuttosto che a risolvere i problemi. Dimostrazione ne è la fretta con cui si è voluto definire "storico" l' accordo-fuffa sui migranti raggiunto al mini vertice di Malta dai ministri dell' Interno maltese, francese, tedesco e italiano, presentando come un successo ciò che invece non scioglie i tradizionali punti critici. Tanto per cominciare, nessuna soluzione sarà mai buona per l' Italia fino a quando non si farà una sacrosanta distinzione fra porto «sicuro» e porto «più vicino». Continuare a gemellare i due concetti significa che, data la posizione geografica, deputati all' accoglienza saremo sempre noi, mentre sarebbero ben sicuri pure porti più lontani dalla tipica rotta dei migranti, come per esempio quelli francesi. Leggi anche: Bruno Vespa rivela "l'assicurazione sulla vita" di Giuseppe Conte In secondo luogo, resta ancora ambigua la definizione di «asylum seeker», richiedente asilo. Se nell' accordo di Malta rientrano solo, come vorrebbero Francia e Germania, gli aventi diritto, pari a circa il 10% di coloro che arrivano sulle nostre coste e fanno domanda, significa che il restante 90% finisce tutto a carico dell' Italia. Dovrebbero essere rimpatriati ma, poiché non mancano i ricorsi, la procedura richiede minimo un anno e mezzo. Periodo in cui rimangono nel nostro Paese pur non avendone i requisiti, con relative spese per lo Stato e possibilità di circolare dappertutto. Infine, pubblicizzare il raggiungimento dello pseudo-accordo sulla redistribuzione ha innescato nei migranti il passaparola per cui in Italia ora si può sbarcare. Si chiama pull factor, fattore di attrazione, ed era proprio quello che il precedente governo voleva evitare: giusto fare gli accordi, ma con attenzione ai dettagli e soprattutto senza sbandierarli. La cifra del lavoro certosino e silenzioso era quella dell' ultimo ministro degli Esteri con grande esperienza internazionale, Enzo Moavero Milanesi, il quale, d' accordo con Matteo Salvini, era a un passo dalla soluzione vera dell' incubo migratorio. Con loro al governo, la redistribuzione avveniva prima dello sbarco, così che in Italia rimanevano solo, pro quota, quelli che davvero potevano starci. Con le dovute proporzioni, né uno in più né uno in meno degli altri Paesi. Mentre d' ora in poi, causa le nuove controproducenti regole, dovremo mantenerne un numero smisuratamente maggiore rispetto ai cosiddetti partner europei. Ma nelle sue giravolte, il governo 5 Stelle-Pd sembra averlo già rimosso. Eppure sarebbe bastato rendere organico, stabile e strutturato il vecchio meccanismo, andando oltre l' approccio "caso per caso", come chiedeva pure il presidente Mattarella e come avevano convenuto il 20 agosto, giorno delle dimissioni del premier Conte, Moavero e il suo omologo tedesco Heiko Maas. Magari con l' aggiunta di un grande piano di investimenti nei Paesi di origine dei migranti. Il che, però, significherebbe un allargamento del bilancio europeo, oggi invece ridotto all' 1% del Pil dell' Ue proprio per scelta degli Stati membri. Cosa farà davvero adesso il governo? Continuerà a inseguire gli annunci e Instagram o riprenderà il piano di Salvini e Moavero che avevano già preparato tutto? di Paola Tommasi