Sfida

Attilio Fontana: il governatore lombardo risponde a Vincenzo De Luca: "Ignora che noi curiamo 14mila campani"

Pietro Senaldi

Da sempre Libero prova simpatia per il governatore campano Vincenzo De Luca. Non lo invidiamo, amministra una terra difficile, che lo costringe a provvedimenti drastici e dichiarazioni funamboliche. Come quando ha minacciato i suoi elettori dicendo che avrebbe mandato le forze dell' ordine con il lanciafiamme a disperdere eventuali assembramenti. Oppure come quando, unico in Italia, ha vietato, nella patria della Margherita, la consegna delle pizze a domicilio e ha chiuso dall' oggi al domani un intero Comune dopo un corteo funebre. L' uomo ci piace perché, malgrado sia del Pd, è uno che decide e non ha pregiudizi ideologici. Questo lo fa detestare dai parlamentari e dagli altri amministratori dem, che lo considerano un corpo estraneo. Il che ce lo fa apprezzare ancora di più.

De Luca è riuscito a frenare il contagio nelle sue terre. Ha chiarissimo che, se si apre un focolaio da quelle parti, è la fine - altro che Lombardia - e non sa più cosa inventarsi per tenere i campani a casa. È sotto elezioni e, poiché sta servendo ai suoi votanti una minestra indigesta, deve tenerseli buoni dicendo almeno qualcosa che a essi piace sentire. Perciò il boss campano ha attaccato Attilio Fontana che, con altri governatori del Nord, spinge per riaprire le aziende: «Se la Lombardia apre, io chiudo la Campania». E chissenefrega? Avrebbe potuto rispondergli il collega lombardo. E poi ancora, rincarando la dose e sfidando i propositi secessionisti di De Luca: la chiudi in entrata? E allora ce ne faremo a malincuore una ragione. O la chiudi in uscita? Al che qualcuno nelle valli e nelle pianure contaminate potrebbe anche stappare un Franciacorta o un Prosecco. Attilio Fontana invece è stato un signore. Ha scritto al governatore campano un messaggio che zampilla bontà e altruismo: «Caro De Luca, qualunque cosa accada, sappi che noi non chiuderemo mai la porta ai 160mila italiani, tra i quali 14mila campani, che ogni anno scelgono di venire a curarsi in Lombardia».

Una risposta che spiega meglio di mille analisi psico-sociologiche e inchieste la reazione che la popolazione italiana più colpita dal Covid-19 ha avuto all' epidemia: dignità del dolore, solidarietà, senso di unità, voglia di rialzarsi superiore alla paura, nessuna recriminazione per gli aiuti che lo Stato avrebbe dovuto dare e non ha dato e poche polemiche per i tanti bastoni tra le ruote che Roma ha messo a Milano. E, in particolare, i lombardi non hanno replicato agli sfottò piovutigli addosso anche da intellettuali di rossa fama, che li hanno accusati di essersi meritata l' epidemia, sfoderando il tema dell' eccessivo attaccamento al lavoro dei polentoni.

Va di moda, tra i fan di Conte, sostenere che Fontana, Zaia e compagnia siano dei matti irresponsabili, che vogliono riaprire le loro fabbriche spinti da istinto kamikaze. Non è così. Il Nord è ricco e vuole rimanere tale. La ricchezza ha un prezzo, sconosciuto a chi non la possiede, che si chiama lavoro, duro e costante. I governatori settentrionali vedono i loro corregionali impoverirsi ogni giorno di più. Le altre nazioni pompano denaro direttamente nei conti corrente degli imprenditori, mentre il nostro governo ha slittato a maggio il decreto sull' economia ottimisticamente battezzato «Aprile».

I fondi alle imprese arriveranno per pagare le tasse, sospese ma non tolte, in una grottesca partita di giro nella quale lo Stato dà con la sinistra e riprende con la destra e gli interessi. Intanto aumentano ad altre latitudini le domande di reddito di cittadinanza. I governatori del Nord sanno che il futuro dipende solo dai loro corregionali e vogliono ripartire in sicurezza. Altrove non c' è fretta di riaprire perché è rimasto poco o nulla da riaprire. Ci sono altre entrate: stipendi pubblici, sussidi, lavoro nero, che come tale procede indisturbato da sempre senza permessi. Siamo felici che il governo voglia riaprire la Basilicata, risparmiata dal virus, ma temiamo che essa non sarà in grado di caricarsi sulle spalle l' Italia, come invece in buona parte fa la Lombardia, che paga il 22% delle tasse di tutto il Paese contro il 3% della terra amministrata dall' encomiabile De Luca.

 Ci spiace che un amministratore che stimiamo se ne sia uscito con una frase così infelice. Un atto di tracotanza punito dai suoi elettori, scesi in piazza l' indomani in massa per l' estremo addio a un notabile locale, alla faccia dei divieti del governatore sceriffo, che anziché impallinare Fontana dovrebbe concentrarsi su bersagli più vicini a lui. Non si può alzare la palla a quella sinistra centralista, pasticciona e arraffona, che sta speculando sulle sventure lombarde nel tentativo di far fuori per via giudiziaria una classe dirigente. Il sospetto è che si voglia mettere le mani sulla torta, commissariando una Regione che è cresciuta più di tutte anche perché non ha mai avuto presidenti del Pd o Pci che fosse.

Conti alla mano, curare gli altri italiani costa alla Lombardia 300 milioni l' anno, oltre a liste d' attesa più lunghe di quelle che la Regione avrebbe se si occupasse solo della salute dei propri cittadini. Questo al netto dei 55 miliardi di residuo fiscale versati allo Stato per avere in cambio mascherine inesistenti, guanti fantasma, critiche e tentativi di sabotaggio nel momento del bisogno. Malgrado questi salassi, la Regione ha chiuso il 2019 con un attivo di 240 milioni. Non si accomodasse chi pensa che potrebbe fare meglio. Perché o è un fesso o un impostore.