Di Pietro Senaldi

Immigrazione, Marco Minniti: "Va gestita in Libia, non qui. Se cade la Tunisia, il caos"

Pietro Senaldi

La pandemia ha sconvolto il mondo ancora più dell'11 settembre, che abbiamo ricordato pochi giorni fa. Ha chiuso in casa centinaia di milioni di persone, fermato processi geopolitici, sconvolto l'economia mondiale, rimesso in discussione i limiti dell'uomo moderno. La sola cosa che pare immune al Covid è il tedio quotidiano della politica nostrana, un'altalena di polemiche di bassa lega e nobili velleitarismi che si infrange immancabilmente sugli scogli della realtà. Le elezioni regionali di lunedì prossimo sono l'ennesimo pretesto per tenere la situazione sottovuoto, pur essendo chiaro a tutti che, sia che si concludano con un 7-0 per il centrodestra sia che finiscano con uno 0-7 in favore della maggioranza, all'indomani non muterà nulla. Fatti salvi eventi eccezionali esterni imprevedibili o un crollo di nervi collettivo dei parlamentari grillini. L'unica cosa che può cambiare, in caso di disfatta dei dem, è la sorte del segretario, Zingaretti, ma siamo al punto che questo ormai non scalda troppo neppure i parlamentari del partito. Marco Minniti osserva la realtà dal suo ufficio. Nei mesi scorsi i commissari europei lo hanno proposto come inviato speciale della Ue per la Libia. Il nostro governo ha lasciato colpevolmente cadere l'offerta. È un numero uno eppure in Italia molti fanno finta di non averlo capito. Lui non è tipo da farsi il sangue amaro per questo.

 

 

«Quarant' anni fa, dietro la mia scrivania di funzionario del Partito Comunista, campeggiava la scritta "Qui si lavora, non si fa politica". Tradotto: non si fa inutile chiacchiera politicista. E quella era una politica seria, basata su valori e partiti popolari. Oggi non ho cambiato idea. Alzo lo sguardo e vedo la situazione più inedita che la realtà ci potesse consegnare. Il Covid sarà uno spartiacque nella storia del mondo che avrà effetti più duraturi e profondi perfino dell'attacco alle Torri Gemelle, perché la pandemia cambia le regole delle relazioni tra gli uomini». L'Occidente però fatica a capirlo, e a dare una risposta. In Italia la sinistra continua ad attorcigliarsi intorno al proprio ombelico mentre i sovranisti le hanno sfilato la rappresentanza popolare. Quanto all'Europa, non riesce a uscire dal dualismo tra Germania regina dell'economia e Francia guida diplomatica e a dare una risposta unitaria. «Il Mediterraneo si chiamava Mare Nostrum, ora sono acque contese anche tra russi e turchi. Solo pochissimi anni fa sarebbe stato impensabile. La sinistra ha fatto degli errori, ma la destra non fa il suo lavoro, non porta avanti i propri valori, non alza il dibattito, si perde in polemiche di secondo piano», chiosa Minniti. Come influirà il virus negli equilibri mondiali? «I futuri rapporti di forza nel mondo dipendono da come i diversi Paesi usciranno dalla pandemia. Prima del Covid si prevedeva che in dieci anni, tra le prime cinque economie del mondo quattro sarebbero state asiatiche. Oggi India e Cina sono in ginocchio. Chi trova il vaccino fa come Cristoforo Colombo, scopre l'America; da qui tutta la freddezza dell'Occidente verso l'annuncio di Putin, che dichiara di averlo. Una piccola guerra fredda sanitaria».

Se l'Asia si è ammalata, Europa e Usa non paiono godere di migliore salute.
«Gli Stati autoritari non hanno il problema del consenso né della trasparenza; e questo in tempi di pandemia è un grande vantaggio rispetto all'Occidente, che si deve confrontare con l'opinione pubblica. In certi Paesi il bollettino quotidiano dei contagi e dei morti non esiste».
Ho capito. Abbiamo già perso?
«Come Europa, dobbiamo darci una mossa, ma per farlo dovremmo prima aprire gli occhi».
Da dove si parte?
«Dal Mediterraneo, il mare che fu nostrum, e dalla Libia, fondamentale per l'Italia per i flussi migratori, la lotta al terrorismo islamico e l'approvvigionamento di materie prime».
Per un martello, tutto è un chiodo: non sarà fissato lei con il Medio Oriente e la Libia?
«Gli Stati Uniti si sono da tempo ritirati dal Mediterraneo. Già con Obama fecero la scelta drastica di considerare l'Asia come principale terreno di competizione nel mondo. E sbagliò anche l'Unione Europea, che era convinta che la propria sfida fondamentale si giocasse a Est, sul confine russo. Siccome in politica estera i vuoti si riempiono, il risultato di questi errori strategici è che abbiamo regalato un pezzo importante del Mediterraneo e Libia, a Russia e Turchia. Oggi la Sicilia non è più una terra di confine con il Nord Africa ma è la frontiera tra l'Occidente e le autocrazie di Erdogan e Putin. Il primo sta facendo rivivere il sogno dell'Impero Ottomano, il secondo ha realizzato il progetto egemone che fu sia degli zar sia dell'Unione Sovietica».
La Libia fu il grande errore di Obama, dell'Europa e di Napolitano: non è un po' tardi per piangerci sopra?
«L'Occidente si illuse di rispondere alle richieste delle primavere arabe costruendo militarmente le condizioni per l'avvento della democrazia. Obama, poi, ha ammesso l'errore. Per noi che veniamo dal Pci c'era poi il terrore più psicologico che politico di schierarsi contro la Nato. L'Europa poi si lasciò trascinare, anche per ragioni propagandistiche. Il risultato è che adesso siamo di fronte a un freddissimo inverno arabo».
Ma che ci possiamo fare?
«Come Italia, dobbiamo capire che la sfida epocale non è chi vince il referendum sul taglio dei parlamentari. Siamo troppo presi dall'ordinarietà. Come Europa, dobbiamo capire che, per colmare il vuoto lasciato dagli Usa, bisogna correre sulle capacità di difesa e protezione autonoma, altrimenti il Mediterraneo diventerà un centro permanente di instabilità. L'Unione deve capire che la risposta al virus non può essere solo di natura economica».
I segnali le sembrano buoni?
«Per niente. Non si può correre nei conti ma restare fermi sulle gambe in diplomazia. Abbiamo lasciato alla sola Francia la gestione della crisi nel Mediterraneo Orientale, sia in Libano, sia per quanto riguarda le tensioni tra Grecia e Turchia sul controllo dell'isola di Kastellorizo, la stessa del film di Salvatores, al centro di una disputa sul controllo dei giacimenti petroliferi e di gas. Ma l'Europa non può farsi rappresentare da singoli Paesi. E poi, basta sottovalutare il problema dell'immigrazione».
È tornato il Minniti di destra?
«Macché di destra, penso agli interessi dell'Italia. E il primo è non regalare la Libia a Russia e Turchia: la vicenda libica è l'esempio perfetto di come il nostro interesse nazionale non si gioca solo dentro i confini del Paese».
Ci risiamo: perché è così cruciale la Libia?
«È illusorio pensare che il problema dell'immigrazione si risolva con la redistribuzione dei profughi all'interno della Ue. La partita si gioca in Africa, è lì che vanno governati i flussi, più che mai adesso, in epoca di coronavirus. Io da ministro, senza pandemia, ho fatto, con fatica, undicimila ricollocamenti in Europa; e allora erano obbligatori. Adesso c'è la pandemia e dall'estate 2018 la redistribuzione è su base volontaria. È chiaro che non può essere una soluzione di sistema».
Glielo spiega lei alla sinistra italiana?
«Abbiamo già dato. Tocca ad altri, temo, assaporare, per dirla con Dante, quanto sa di sale lo pane altrui».
Ha parlato anche di minaccia terrorista.
«La Libia è storicamente una potenziale piattaforma di attacco. Fino a pochi anni anni fa Sirte era in mano all'Isis. Oggi in Tripolitania, portati insieme con l'esercito turco, ci sono 2.500 combattenti turco-siriani di formazione jihadista. Senza considerare che il giornale inglese The Telegraph ha scritto che Erdogan avrebbe dato il passaporto turco a guerriglieri di Hamas. Fatto gravissimo, se vero, pensando anche che Ankara è nella Nato».
Perché la situazione è precipitata in questo modo?
«Siamo a un passaggio cruciale. Le democrazie nel mondo sono apertamente sfidate nella loro essenza e nella loro sovranità. Questo è il cimento della classe dirigente europea. L'Unione non sottovaluti le mosse di Erdogan e Putin. Se lo fa, l'intera Unione rischia il declino».
La nostra classe dirigente spicca per decadimento?
«L'Italia deve riuscire a far capire alla Ue che la questione libica non è un problema solo nostro. I politici devono uscire dal rimpallo quotidiano di accuse. Dobbiamo ricordarci di essere tra i soci fondatori della Ue e smettere di sentirci il fratello malato dell'Europa, rinunciando a essere protagonisti nel mentre si aspettano, litigando, gli aiuti economici».
Come si sta comportando il ministro degli Esteri Di Maio in Libia?
«Personalizzare sarebbe sbagliato e ingeneroso. In controluce si legge su questi temi la fragilità del sistema Italia; anzi, sorge spontanea una domanda: esiste un sistema Italia? Per esempio, l'Italia tempo fa ha aperto un ospedale militare a Misurata, ma la città ha appena siglato con Erdogan un patto che concede alla Turchia la gestione del porto per 99 anni. È stato appena siglato un cessate il fuoco in Libia che prevede che Sirte diventi città aperta. Si lascia la possibilità che essa diventi la nuova linea di confine tra la zona di influenza turco-quatariana e quella russo-egiziana. In Cirenaica c'è una base russa con Mig 29. Tutto possiamo permetterci tranne la divisione del Paese in due zone d'influenza. L'antidoto ci sarebbe, le elezioni previste, nelle bozze dell'accordo (fragile perché non sottoscritto dal generale Haftar), per marzo 2021. Solo che il voto si sarebbe già dovuto tenere nella primavera del 2018, poi nell'autunno di quell'anno. Un eventuale scetticismo non sarebbe infondato. Fino a quando vogliamo nascondere la polvere sotto il tappeto e far finta di non vedere quel che accade?».
Ha nostalgia di Gheddafi?
«Per niente, anche se bisogna riconoscere che la comunità internazionale intervenne contro il dittatore senza avere un progetto né la minima idea di cosa sarebbe avvenuto dopo. È stata una risposta sbagliata alle primavere arabe e il risultato è che oggi non è la Libia ad avere un debito con la comunità internazionale ma viceversa. E ho paura che il peggio debba ancora venire».
C'è un'altra crisi alle porte?
«C'è il rischio del collasso della democrazia tunisina, l'unica dell'Africa settentrionale, colpita al cuore prima dal terrorismo islamico e poi dal Covid, che hanno cancellato il turismo, la sola fonte di ricchezza del Paese».
Infatti adesso emigrano anche i tunisini, vestiti da spiaggia e con barboncino al seguito. 
«Perché emigra anche la classe media. Si è da poco costituito un nuovo governo. L'Europa deve sostenere la Tunisia; la partita va oltre il governo dei flussi migratori. Se collassa anche quella democrazia, l'intero Nord Africa è perduto per l'Europa».