La toga anti-ndrangheta a Libero

Nicola Gratteri a Pietro Senaldi: "Mi hanno detto che Napolitano non mi ha voluto ministro perché pm troppo caratterizzato"

Pietro Senaldi

C'è un magistrato che è riuscito a diventare famoso pur non cavalcando le correnti, anzi denigrandole pubblicamente. Naturalmente anche lui è un pm, ma atipico; al punto che viene accusato di essere un giustizialista non dai politici ma dai propri colleghi. Nicola Gratteri sta provando a fare con la 'ndrangheta in Calabria quello che Borsellino e Falcone tentarono con la mafia a Palermo. Ha la fortuna, a differenza dei due procuratori siciliani, che il governo e l'opinone pubblica si limitano a ignorarlo, anziché mettergli i bastoni tra le ruote.

 

 

 

Procuratore, in che stato è la giustizia italiana e quali sono i suoi mali?
«Non gode di ottima salute e sta attraversando un momento difficile. Quando si vivono certe situazioni bisogna avere la capacità di individuare rimedi e soluzioni. Sostengo da sempre che si devono realizzare, nel rispetto della Costituzione, le riforme necessarie per rendere sconveniente delinquere. Bisogna andare avanti nella informatizzazione del processo penale, strada intrapresa da tempo, divenuta fondamentale soprattutto ora, in tempi di distanziamento sociale e cautele sanitarie, e modificare una serie di norme che nulla aggiungono e molto tolgono».
Se potesse cambiare o introdurre qualcosa per far girare meglio il sistema, cosa sceglierebbe?
«Bisogna eliminare le formalità che nulla aggiungono in termini di reale difesa all'indagato/imputato. Ad esempio, oggi è possibile per il pm fare richiesta di giudizio immediato cautelare - con eliminazione della fase dell'udienza preliminare - solo nell'ipotesi di misura detentiva (carcere o arresti domiciliari) non anche se un soggetto è sottoposto alla misura dell'obbligo di presentazione alla Procura generale, se anche l'indagato ha già avuto piena cognizione di tutti gli atti in quanto vi è stata comunque una discovery completa. Tale limitazione andrebbe rivista. Questa è una delle tante piccole riforme che potrebbero velocizzare il processo penale».
Il mal funzionamento della giustizia è una delle piaghe dell'Italia, ma i più grandi oppositori di ogni riforma sono i magistrati: perché il malato rifiuta la cura?
«Io non credo che i magistrati come categoria si oppongano alle riforme. Credo solo che, quali operatori del settore, ben sanno quali sono le modifiche necessarie e quali no, e sopratutto quali cambiamenti non migliorano, anzi peggiorano, la situazione. A questa cura verosimilmente ci si oppone».
La riforma spetterebbe ai politici, ma questi sono sotto schiaffo delle inchieste: come può un politico riformare la giustizia, a meno che non sia San Francesco?
«Come si riforma ogni ambito della vita sociale e politica. Bisogna sedersi attorno a un tavolo e discutere le riforme necessarie avendo come unico obiettivo quello di migliorare il sistema giudiziario. E poi smettiamola con questa storia dei politici sotto schiaffo: se uno non ha nulla da temere, non ha ragione di preoccuparsi. Il migliore giudice di ciascuno di noi è la sua coscienza».
Si dice che i magistrati, e i procuratori in particolare, siano il potere più forte in Italia attualmente, concorda?
«Non direi. A meno che non si voglia accreditare l'idea che ci siano magistrati capaci di sedersi a tavolino per mettere in piedi inchieste con finalità politiche. Non mi risulta. Non escludo che qualcuno abbia potuto anche farlo. Ma non penso che ci siano magistrati che la mattina si alzino con l'idea di rovesciare un governo o mettere in crisi una coalizione».
I suoi più grandi denigratori sono magistrati: perché molti colleghi la attaccano?
«Questo lo deve chiedere a loro, non a me. Preferisco soffermarmi su quanti, magistrati e non, mi incoraggiano invece ad andare avanti coerentemente per la mia strada».
Cosa risponde a chi la accusa di giustizialismo?
«Rispondo che non è vero; non sono mai stato a favore di una giustizia "rapida e sommaria". Ritengo solo che l'Italia si meriti un sistema giudiziario capace di garantire la certezza della pena. Non possiamo pensare di vivere in un mondo abitato solo da gente buona e onesta. Sarebbe bello. Mi piace però pensare a un mondo in cui non sia conveniente delinquere. Chi commette un reato deve sapere che esiste una pena. E quella pena bisogna espiarla. Credo ovviamente all'idea della riabilitazione, soprattutto di chi si rende responsabile di reati ordinari, un po' meno per i mafiosi. Ma anche i mafiosi hanno la possibilità di redimersi, scegliendo di collaborare con la giustizia».
Buona parte delle persone che ha arrestato nella maxi retata è stata liberata: ha sbagliato qualcosa?
«Vorrei specificare, per chi non conosce il codice, che il pm chiede l'applicazione di misure di custodia cautelare a un giudice terzo, che può accogliere o rigettare la richiesta sulla base di quanto viene posto in valutazione. Il pm chiede, il giudice applica. La scarcerazione poi non significa automaticamente riconoscere l'estraneità dell'indagato rispetto all'ipotesi di reato contestata; in molti casi viene fatta una diversa valutazione in merito alle esigenze cautelari, ma questo è un discorso che non è possibile affrontare in termini astratti».
È vero che il Csm può determinare le carriere di chiunque e gli stessi magistrati sono intimiditi dalla cupola che li governa?
«Non ho mai fatto parte di alcuna corrente e sono estraneo alle logiche di cui parla. Non nascondo però il fatto che ci siano magistrati che sono riusciti a fare carriera grazie alla loro appartenenza al mondo delle correnti che erano nate con tutt' altra finalità. Il correntismo è uno di quei mali che andrebbero estirpati».
Perché non ha mai aderito a nessuna corrente?
«Proprio per la degenerazione che c'è stata delle correnti».
Come ha fatto allora a fare una carriera così brillante?
«Questo è un suo giudizio. Quando ho scelto Catanzaro, non mi pare che ci fosse tanta concorrenza. Oggi Catanzaro è diventata una sede appetibile, ma fino a qualche anno fa, pochi avrebbero fatto domanda per fare qui il magistrato. La mia carriera è fatta di indagini che hanno contributo a combattere un fenomeno insidioso, ricco e potente come la 'ndrangheta».
Cosa pensa dello scandalo Palamara?
«Ho letto molte cose che mi hanno ferito. Compreso commenti sul mio conto che non mi sarei mai aspettato di leggere. Mi auguro che il caso Palamara possa servire a fare luce sul correntismo. Palamara non è stato l'unico magistrato a servirsi delle correnti. Spero che questa vicenda possa fare da monito per evitare che certe cose si ripetano».
A cosa è dovuto il crollo di credibilità e autorevolezza della magistratura?
«Il magistrato dev' essere, sempre e comunque, al di sopra di ogni sospetto. E poi, come si dice: fa più rumore un albero che cade piuttosto che una foresta che cresce. Nonostante gli scandali, ci sono tantissimi magistrati che ogni giorno fanno il proprio dovere con abnegazione e professionalità».
La sovraesposizione mediatica aiuta o danneggia l'immagine dei magistrati?
«Dipende. Se si riferisce alla mia, di esposizione mediatica, le posso dire che ritengo utile e necessario fare conoscere il fenomeno della 'ndrangheta. Proprio perché se ne è parlato troppo poco negli anni passati, essa è potuta diventare l'organizzazione criminale più potente e forte al mondo».
Perché le inchieste sui politici, anche di secondo piano, hanno una eco mediatica di molto superiore alle sue sulla 'ndrangheta?
«Non saprei. La lotta alle mafie non è mai stata una priorità politica nel nostro Paese. Forse è il momento che lo diventi, perché con le mafie non è più possibile convivere. Quando si parla di mafie, si deve tenere conto di quella zona grigia che alimenta la forza e il potere delle mafie».
Che differenza c'è tra l'attuale 'ndrangheta e la mafia?
«La 'ndrangheta ha sempre cercato di mantenere un profilo basso. Fino a vent' anni fa, era considerata una mafia stracciona e niente più.»
E rispetto alla camorra raccontata da Gomorra?
«La 'ndrangheta non è mai entrata nell'immaginario collettivo. Non ci sono film o serie televisive che l'abbiano saputa raccontare, descrivere, analizzare».
È un problema più grave il malcostume politico o il dilagare della criminalità organizzata?
«Sono due facce della stessa medaglia. Nella voce sulla criminalità organizzata che io e il professor Nicaso abbiamo scritto per l'enciclopedia Treccani, abbiamo fatto una riflessione che mi aiuta a risponderle: ci può essere corruzione senza mafia, ma non c'è mafia senza corruzione. Per combattere le mafie, bisogna arginare il malcostume politico, la corruzione e i centri di potere in cui gli interessi dei clan e delle caste si intersecano».
Se dovesse fare una radiografia della 'ndrangheta in Italia, cosa direbbe?
«È la mafia più ricca e potente. Ma non è mai stata un agente patogeno che dal Sud ha infestato il Nord. Al Nord ha trovato le stesse condizioni che l'hanno fatto crescere al Sud: imprenditori e politici che l'hanno scambiata per un'agenzia di servizi».
Nel processo accusa e difesa sono realmente sullo stesso piano o, come lamentano gli avvocati, la bilancia pende a favore delle procure?
«Io non credo che il processo sia squilibrato. Ma sul punto sarebbe auspicabile un confronto - sereno e leale - che potrebbe aiutare a risolvere qualunque tipo di problema».
Perché allora è contrario alla separazione delle carriere: quali effetti negativi avrebbe, non aiuterebbe invece a fare chiarezza?
«Perché la separazione delle carriere non comporta alcun vantaggio ma solo svantaggi, e non solo in termini di cultura della giurisdizione, ma anche in termini di arricchimento e di sviluppo professionale. Non si deve sperare che le carriere non vengano separate, si deve anzi sperare il contrario e avere sempre più pm che hanno fatto i giudici e sempre più giudici che hanno fatto il pm. Io rivedrei anche le attuali limitazioni, almeno in parte, perché solo questa versatilità può avvicinare le parti del processo e al contempo assicurare una crescita professionale che, invece, verrebbe irrimediabilmente inibita da una separazione delle carriere».
Perché Napolitano non l'ha voluta al governo e perché invece Renzi la voleva così tanto?
«Bisognerebbe chiederlo a Napolitano. Mi è stato riferito che mi avrebbe definito un magistrato troppo caratterizzato. Non ho mai capito cosa volesse dire».
Che idea si è fatto delle accuse di Di Matteo a Bonafede, arrivate due anni dopo i fatti?
«Non so nulla al riguardo. Di Matteo avrà avuto le sue ragioni. Forse ha scelto il luogo sbagliato. Forse sarebbe opportuno riprendere il dialogo».
Che senso ha un'indagine parlamentare o ministeriale sulle scarcerazioni dei boss: non è questo vero giustizialismo?
«Tutt'altro. Bisogna capire come e perché in un determinato momento si è ritenuto di scarcerare detenuti al 41bis per inviarli in zone del Paese caratterizzate da un altissimo numero di contagi. Qualcosa non ha funzionato».
Che idea ha del processo per sequestro di persona a Salvini e delle intercettazioni dove due procuratori dicevano che non c'è reato ma il leghista va processato perché è un rivale politico?
«Non conosco nel dettaglio questo dialogo a cui fa riferimento. Se il contenuto è esattamente questo dovranno dare spiegazioni su quanto affermato perché si tratta di affermazioni che danneggiano l'intera magistratura».
Quanto è politicizzata la magistratura italiana?
«Come in ogni ambito della vita sociale, anche nella magistratura ci sono mele marce. Ma non credo ci sia una forte politicizazzione della categoria. Il problema è che bastano pochi per rovinare molti».
Si servono più i giudici dei politici o i politici dei giudici?
«Questo lo deve chiedere ai magistrati - se ne conosce - che vanno dai politici per chiedere favori personali».