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Gianni ed Enrico Letta, un patto in famiglia per il presidente: ecco i nodi della trattativa

Elisa Calessi
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Il patto dei due Letta. Così viene chiamata l'ultima voce che si sta diffondendo, in queste ore, nel sottobosco dei Palazzi, svuotati per via delle ferie natalizie. Qualcosa, però, si muove. E pare che proprio tra nipote (Enrico) e zio (Gianni), complici le festività, si sia intensificato il dialogo per vedere di uscire dalla palude. La soluzione che i due avrebbero individuato è questa: nei primi tre scrutinii, il centrodestra vota Berlusconi e il centrosinistra un candidato di bandiera o scheda bianche. In questo modo si dà al leader di Forza Italia la possibilità di misurarsi con i voti veri e vedere se il lavoro certosino di raccolta del consenso è andato a segno o no. Se sì, dovrebbe raggiungere soglia 505, cioè quella che, dal quarto scrutinio, gli consentirebbe l'elezione. 

 

Se, invece, risultasse molto lontano da quel numero, lo si convincerà a fare un passo indietro, Ma, insieme, a diventare il king-maker del prossimo presidente della Repubblica. Sarebbe lui, a quel punto, a indicare la soluzione. Cioè Draghi. Dal quarto scrutinio in poi, dove basta la maggioranza assoluta, e tolto il problema Cav, sarebbe più semplice eleggere l'ex numero uno della Bce. Quanto a Berlusconi, avrebbe, comunque, la soddisfazione di aver ottenuto un consenso notevolissimo. Sarebbe una sorta di riabilitazione morale, una vittoria simbolica: non sufficiente per portarlo al Colle, ma per incoronarlo leader di questa Repubblica. E potrebbe assumere il ruolo di king-maker del nuovo presidente, uscendo di scena e indicando una soluzione: Draghi. 

 

L'accordo così costruito ha un altro punto di forza: evitare che il premier sia impallinato dai franchi tiratori. Che, a detta di tutti, saranno tanti. Se, infatti, si lanciasse il nome del premier nei primi scrutinii, anche sulla base di un accordo fra i leader, nessuno è in grado di garantire che non ci siano voti in libertà. «Ogni parlamentare», come spiega un deputato, «non sa se sarà rieletto. O meglio: sa che probabilmente non sarà rieletto, vuoi per il calo di consensi del partito grazie a cui è arrivato fin qui e vuoi per il taglio dei parlamentari. In più non ha nessuno con cui parlare, nessuno se lo fila, è solo. Perché dovrebbe seguire le indicazioni del leader, che non gli garantisce alcun futuro? Piuttosto, sfogherà il suo rancore nel voto oppure ascolterà chi gli telefona...». Perciò molti temono la candidatura di Draghi. Perché i leader sono i primi a sapere di non essere in grado di garantire gruppi compatti. 

Ma un conto è se viene bruciato un nome quanto si vuole illustre, ma al momento senza ruolo, altro è se a essere bruciato è il premier. È chiaro che avrebbe conseguenze sulla sua permanenza a Palazzo Chigi. E così si realizzerebbe la profezia che in tanti paventano: non avere Draghi né al Quirinale, né al governo. Qualcosa si capirà la prossima settimana, quando i partiti faranno un punto al loro interno. Comincia il M5S, il 10 gennaio, poi il 13 tocca al Pd. Davanti ai parlamentari democratici, Enrico Letta non farà nomi, ma dirà che il prossimo presidente della Repubblica deve essere eletto dalla stessa maggioranza che sostiene il governo. Serve, dunque, un accordo largo. Solo così la legislatura va avanti. Quanto ai contatti tra Lega e M5S, Letta non permetterà un accordo che lo tagli fuori. Dove va il M5S, andrà il Pd. E vice versa.

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