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Mario Draghi "pronto al passo indietro" sul Quirinale: indiscrezioni sulla mossa a pochi giorni dal voto

Salvatore Dama
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Quelle che sei mesi fa erano timide smorfie di dissenso, oggi si sono fatte vere e proprie voci contrarie. È arrivata la fine della percezione messianica di Mario Draghi. Forse. "Ipse dixit", dicevano gli antichi romani. L'ha detto lui. E così è. Ma la politica, prima in stato di soggezione di fronte alla statura dell'ex banchiere, ora alza la testa. Ed è successo più o meno dopo la conferenza di fine anno. Quando Draghi, con la chiarezza di un oracolo, ha fatto capire che magari sì, poteva essere interessato a traslocare al Quirinale. Che poi voleva dire quello? Boh. Però, agli occhi dei partiti, Mario è sceso dal piedistallo. Terminando l'epoca in cui erano gli altri a doverlo inseguire e cominciando quella in cui è lui a proporsi. Bene. Anzi, male. Perché il presidente del Consiglio non si ricorda quando abbia accordato tutta questa confidenza ai leader politici della sua maggioranza. Per uscire dal chiacchiericcio, raccontano che Draghi sia quasi tentato dal prendere nuovamente la parola. Stavolta magari in maniera meno criptica. Per spiegare che lui, "il nonno prestato alle istituzioni", non ambisce alla più alta carica dello Stato. Anzi, a dirla tutta, manco sgomitava per fare il premier. Parlare. Già, ma come? E dove? Draghi non è uno che va a farsi una passeggiata a via del Corso come i suoi predecessori, allertando preventivamente i giornalisti. Quello era Giuseppe Conte. E lui ha un altro stile. Anche nelle conferenze stampa istituzionali non articola ragionamenti, emette sentenze. Lasciando ai partiti lo sconforto di doversi perdere nelle interpretazioni.

 

 

 

MUGUGNI

Il piedistallo che non c'è più, si diceva. Adesso i politici non gli danno più del "voi". Alcuni sono passati al "lei", altri addirittura azzardano il "tu". E pure tra gli entusiasti della prima ora iniziano a serpeggiare dei dubbi. «Il Governo si è inceppato», scrive il leader di Azione Carlo Calenda su Huffington post, «in un mese l'esecutivo Draghi ha compiuto passi falsi su almeno tre questioni decisive per il paese». La legge di bilancio è «debole, poco ambiziosa». La risposta alla crisi determinata dall'aumento dei prezzi dell'energia «è stata sin qui tattica e incapace di mettere a riparo le imprese dal rischio di fermata produttiva». Terzo punto: il «mezzo obbligo vaccinale» e «la selva di eccezioni, date di ingresso, esenzioni e sanzioni che lo accompagnano. Un provvedimento del tutto inadeguato per affrontare Omicron». Secondo Calenda, Draghi deve decidere: o continua a fare il presidente del Consiglio o fa prevalere la legittima ambizione di andare al Quirinale. Ma, nel primo caso, «deve definire l'agenda», perché «il capitale politico» del premier non è «illimitato». Un altro che in passato non aveva mai fatto mancare il consenso all'ex banchiere è Luca Zaia. Ma ora anche il governatore del Veneto vacilla: sulle scuole «l'unica novità è il caos, dettato da un decreto che impone delle fasi di testing che sono insostenibili. Io ho chiesto al governo di avere una espressione del Comitato tecnico scientifico sulla riapertura delle scuole, non ho avuto risposte». E anche sui vaccini obbligatori per gli over 50, Zaia ha le sue perplessità: «Se è un obbligo di natura sanitaria, è inattuabile: è impensabile che in un paese civile si accompagni qualcuno con la for za pubblica per essere vaccinato».

 

 

 

RISCHIO CAOS

Meno inattesa è l'uscita di Beppe Grillo. Che resta pur sempre il fondatore di un pezzo consistente di questa maggioranza: «Essere soggetti a controlli del governo centrale, e ancor più a trattamenti sanitari obbligatori, evoca immagini orwelliane che pesano molto psicologicamente», ha attaccato l'ex comico. Non nuovo anche lo scontro tra il governatore Vincenzo De Luca e Palazzo Chigi. Ma forse è la prima volta che accade in maniera così frontale da quando c'è Draghi: «Devo constatare con grande amarezza che l'Italia ha perduto tre mesi di tempo senza fare niente. Abbiamo bruciato una condizione di relativo vantaggio rispetto agli altri paesi europei». De Luca ha deciso di tenere chiuse le scuole fino a fine gennaio. E l'esecutivo ha già annunciato l'intenzione di impugnare la decisione. Caso isolato? Non proprio. Perché anche la Sicilia è tornata a chiedere a Roma di rinviare la riapertura delle scuole: «Quello che temevamo si sta puntualmente verificando», spiega il presidente Nello Musumeci, «avevamo anticipato al governo che con queste norme nazionali sulla riapertura delle scuole sarebbe stato il caos». E caos sarà.

 

 

 

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