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Matteo Salvini, la trappola del Pd sul Quirinale: un doppio gioco alle spalle di Mario Draghi

Matteo Salvini

Pietro Senaldi
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Più calano le quotazioni di Draghi per la presidenza della Repubblica, più crescono le preoccupazioni del Pd di ritrovarsi Berlusconi al Quirinale. L'interessato ci crede e proprio ieri, un attimo prima che il premier iniziasse la sua conferenza stampa, è sceso in campo ufficialmente, lasciando trapelare che, se Super Mario traslocasse sul Colle più alto, Forza Italia uscirebbe dalla maggioranza e si andrebbe diretti al voto anticipato. Per Letta e compagni sarebbe la catastrofe. Come primo effetto, il segretario dovrebbe farsi da parte, ma questo a qualcuno nel partito potrebbe anche far piacere, tant'è che il Cavaliere conta su un pugno di voti democratici. Come seconda, e duratura conseguenza, si consumerebbe definitivamente lo strappo tra sinistra e magistrati, che sarebbero costretti per sette anni ad esporre il ritratto di Silvio presidente dietro la scrivania. E poi ci sarebbe il crollo del tabù che, dai tempi di Einaudi, ha sempre impedito che un liberale si inerpicasse fino al punto più alto delle istituzioni.

 

 

Per evitare questo scenario, il Pd le sta tentando tutte. Ha messo sul piatto, a giro, un paio di dozzine di candidati, alcuni dei quali francamente improbabili, poi ci ha provato con le donne, prendendosi anche qualche vaffa da autorevoli femministe dotate di libertà di pensiero e dignità non in svendita. A ogni capocciata che prendevano poi, i dem tornavano in ginocchio da Mattarella per supplicarlo di rimandare il trasloco, la qual cosa, visti la fermezza e il cipiglio con il quale il presidente declinava ogni invito, sarebbe una sorta di sequestro di persona, peraltro non ancora del tutto scongiurato. Tutti calcoli comunque fatti senza il pallottoliere, perché la sinistra non ha i numeri per eleggere da sola il prossimo presidente. Per questo Letta, faticando non poco per convincere i propri colleghi di partito che i tempi d'oro sono passati e ora bisogna mediare, era riuscito a far digerire ai suoi il nome di Draghi, contando sul tradimento di Berlusconi da parte di Salvini e Meloni, che troverebbero in Super Mario l'uomo in grado di sdoganare, dall'alto del Colle, un premier di destra. La semina però non ha dato frutti, come a vuoto è andato il tentativo di far convergere sull'ex governatore le preferenze degli azzurri filogovernativi, che non perdono occasione per lodare l'attuale premier, ma per non correre il rischio di perdere il cadreghino lo vogliono tenere inchiodato alle responsabilità di governo.

ALL'ASSALTO
Ancora una volta costretti dalla realtà a cambiare strategia, e anche approfittando del riannodarsi dei rapporti tra Salvini e Di Maio, che è il vero titolare dei voti grillini per il Quirinale, i dem sono dunque passati all'assalto del capo della Lega, seducendolo con l'offerta un po' illusoria di fargli recitare il ruolo del grande stratega nella scelta del prossimo capo dello Stato. L'ex ministro dell'Interno infatti non si potrebbe mai intestare Draghi, ma un nome diverso, che possa passare come una scelta gialloverde allargata alla sinistra, forse sì. Un nome sul quale stavolta potrebbero convergere anche i forzisti di governo e di poltrona. $ l'ennesimo trappolone del Pd ai danni della Lega, che potrebbe anche vedere Renzi protagonista, proprio come nella crisi di governo dell'agosto 2019. Cartabia, Casini, Amato, perfino l'ex procuratore Nordio o finanche Pera potrebbero essere il punto di caduta, oltre ovviamente all'eterno cavallo di ritorno del Mattarella bis.

 

 

SCISSIONE
A quel punto il gioco per i dem sarebbe fatto: Draghi inchiodato dov'è, scongiurato il pericolo Berlusconi, al Colle qualcuno che deve ringraziare il Pd e il centrodestra spaccato. Già, perché il piano di Letta e compagni è in due fasi: la prima prevede di far fuori Silvio dalla corsa al Quirinale con la complicità dei suoi alleati, la seconda punta a coglierne al volo l'amarezza per spaccare il centrodestra anche al governo, con un divorzio tra Lega e Forza Italia e addirittura un'ipotetica scissione della creatura berlusconiana. È convinzione diffusa infatti che se il Cavaliere non riuscisse a farsi eleggere, ma neppure fosse in grado di intestarsi il successore di Mattarella, si ritirerebbe in una sorta di Aventino, lasciando in balia degli eventi il partito. Una piccola parte di azzurri si getterebbe nelle braccia di Salvini e una ancora minore in quelle della Meloni. Il grosso invece si unirebbe a quel centro che va da Lupi a Toti fino a Cesa e intercetta Calenda e perfino Italia Viva e tenterebbe di dar vita alla cosiddetta maggioranza Ursula, la coalizione del "tutti dentro tranne le destre" che va di moda nell'Unione Europea e alla quale il Pd appende il suo sogno di continuare a governare non solo nell'anno che ancora manca alle urne, ma anche per tutta la prossima legislatura. Naturalmente, e come sempre, con i voti degli altri. Occhio quindi Salvini alle sirene progressiste.

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