Che brutta fine

Luigi Di Maio, umiliazione totale: la scelta di Bruno Tabacci

Giovanni Sallusti

Il genio è talmente raro, che quando si manifesta compiutamente bisogna solo inchinarsi. E Bruno Tabacci nel suo campo è un genio, lo è incontestabilmente e con manifesta superiorità funambolica. Già definire il suo campo è impresa ardua (ed è un altro indizio della conclamata genialità). Con approssimazione, potremmo dire che si tratta di una branca della politica che in realtà diventa molto più della politica, diventa quasi metafisica: l'arte di sopravvivere. Sempre, comunque, in qualsiasi epoca storica, stante qualunque quadro nazionale, internazionale e galattico.

 

Il tuo browser non supporta il tag iframe

Bruno Tabacci ieri, a Repubblica: «Il dibattito nel Pd è molto confuso e la direzione che si è tenuta l'ha confermato». Ed è la premessa, il commento accigliato ma in fondo benevolo di un professionista di fronte ai riti dei dilettanti. Poi, la sparigliata, il colpo di tacco, la pennellata d'autore: «Ma se i dem si ricostruiscono, io ci sono. Potrei partecipare alla vita politica del Pd». D'altronde, e questa è l'inversione improvvisa del genio, «con Di Maio era un cartello elettorale, esperienza ormai finita».

UNDICI SCHIERAMENTI
Per chiunque si limitasse a fare politica, l'accusa di incoerenza sarebbe immediata, visto che due-mesi-due fa il nostro assicurava al limite della commozione: «Questa è un'operazione non casuale. Luigi è più giovane dei miei figli, c'è un passaggio generazionale, un investimento nel futuro». Nel suo caso è l'arte che prolunga se stessa, non c'è niente di incoerente o sbagliato, solo un lievissimo, infinitesimale, decisivo sottotesto: «Un investimento nel MIO futuro». 

E Giggino, che certe cronache compiacenti descrivevano come maturato, evoluto strategicamente, addirittura trasformatosi in "democristiano" (chissà come deve aver riso Tabacci, titolare dell'autentica e irripetibile genialità Diccì) non l'ha visto neanche, il doppio passo elettorale del "padre" putativo. Lui, il giovane rampante, mandato a schiantarsi nel suo collegio napoletano, dove non poteva più rivendicare il reddito di cittadinanza dopo lo strappo dalla casa madre pentastellata. Il partitino-provetta, Impegno Civico, consegnato a quello 0,5% che il fuoriclasse veterano conosceva già da sempre. Quest' ultimo, viceversa, trionfante nel collegio di Milano-Loreto per il centrosinistra, unico eletto di una formazione che non esiste già più, forse non è mai esistita, è esistito sempre e solo il suo genio. Che adesso si avvia verso Largo del Nazareno, superando di gran lunga il titolare della via quanto a resurrezioni.

 

Il tuo browser non supporta il tag iframe

Il Pd, infatti, sarebbe l'undicesimo partito del nostro. Due o tre sono segno d'incostanza ideale, quattro o cinque di palese attitudine da voltagabbana, undici sono un altrove, sono dadaismo politico e talento esistenziale pirandelliano. In origine fu la Balena Bianca, ovviamente, la fucina senza cui nessuna arte del sopravvivere è possibile. Poi è stato un pellegrinare accorto tra i frammenti dello Scudo crociato, mai da succube del puzzle, ma sempre tra i suoi montatori e smontatori: Ppi-Udr-Ccd-Udc e "Nun te reggae più", avrebbe sbottato Rino Gaetano.

LA POLTRONA È SUA
Che però non era democristiano, a differenza di Tabacci che regge benissimo la maratona di sigle e movimenti estratti dal cilindro per dare forma alla sua arte. La Rosa Bianca o Rosa per l'Italia, l'Alleanza per l'Italia che si allea anche coi finiani di Futuro e Libertà (e sopravvivere pure a questo matrimonio è la prova definitiva della genialità tabacciana), quindi il carpiato supremo: garantire lui, cattolico-popolare (ma come sempre le formule ideologiche sono riduttive di fronte alla deflagrazione dell'arte) l'approdo in Parlamento degli ultra-laicisti di Più Europa. Infine e sempre il contenitore che è il riassunto di una vita, Centro (tavola) Democratico, il quale durante il governo Conte II accoglie transfughi dai Cinque Stelle, dal centrodestra, dal Pd, tutti gli aspiranti apprendisti alla scuola del genio. Fino a ieri, fino all'ultimo (per ora) colpo da maestro. Signori, in piedi (anche perché se c'è una poltrona l'ha senz' altro vista prima lui).