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Ignazio La Russa, l'appello: "Fascismo? Ora tocca alla sinistra"

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Fausto Carioti
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In anni recenti Matteo Renzi, Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno raggiunto picchi di consenso enorme, gran parte del quale è evaporato in breve tempo. E ora che la sorte e gli elettori arridono a Giorgia Meloni e al suo partito, è doveroso fare la domandaccia ad Ignazio La Russa, presidente del Senato e cofondatore di Fratelli d’Italia.

 

 

 

Presidente, le viene mai il pensiero che gli italiani vi abbiano scelto perché siete gli unici che ancora non sono stati messi alla prova, e che adesso chi corre il rischio di veder svanire il consenso siete voi?
«Il rischio di perdere il consenso c'è sempre, per tutti, a prescindere dai paragoni con chi c'è stato prima di noi. Ma saranno decisive le risposte che il governo saprà dare alle emergenze degli italiani: non c'è un ciclo di ascesa e caduta inevitabile, come potrebbe sembrare dai precedenti che ha ricordato lei».

Non si rivede in quegli esempi?
«No, sono paragoni che non reggono. La crescita di Fratelli d'Italia, e in particolare di Giorgia Meloni, non è stata repentina, ma continua e progressiva. Siamo partiti dall'1,9% delle Politiche del 2013, siamo saliti al 3,7 nelle Europee dell'anno seguente, poi al 4,3% nel 2018, quindi al 6,5% alle Europee del 2019. In molte regioni abbiamo preso percentuali a due cifre. E quando è stato chiaro che la nostra era una proposta di governo seria, abbiamo fatto il balzo finale. Una scalata di dieci anni, nella quale ogni volta siamo andati meglio che nella precedente, indipendentemente dal tipo di elezione».

E lei che indicazione ne trae?
«Che la nostra è una crescita diversa. Basata su un partito consolidato, guidato da un leader che non è un corpo estraneo come era Renzi per il Pd, ma anzi è figlia di questo partito, che lei ha poi saputo forgiare e migliorare. Il paragone con Salvini, poi, è ancora meno calzante: la Lega crebbe soprattutto stando al governo, la nostra è stata una crescita dovuta anche alla coerenza che abbiamo dimostrato non andando al governo col Pd e il Movimento Cinque Stelle».

Non crede che vi abbia aiutato anche l'abuso della retorica dell'antifascismo da parte della sinistra? In campagna elettorale hanno puntato tutto su questo tema, che proprio non ha preso.
«È vero, l'argomento non ha preso. Ma non penso che questo abbia aiutato Fdi, è più probabile che gli abbia fatto perdere qualche decimale. Ha consolidato l'opinione di quelli che volevano votare per Fratelli d'Italia, perché hanno visto la strumentalità del tentativo, ma credo che sia stato anche un "tappo" che ha impedito a Fdi di raggiungere altri elettori indecisi, che avremmo potuto convincere. Però, anche se mi sbagliassi, e davvero quell'argomento ci avesse aiutato, il mio giudizio non cambierebbe».

Ovvero?
«Continuerei a sperare che una simile propaganda cessasse. L'ostracismo e il tentativo di criminalizzazione su questi argomenti storici non hanno ragione d'essere».

Cosa dice la vostra storia riguardo all'antifascismo?
«Già nell'immediato dopoguerra il Msi aveva fatto la sua parte di conti col fascismo: il motto di allora, "Non rinnegare, non restaurare", era un primo importante superamento fatto da chi era comunque stato partecipe della storia del Ventennio. Per non parlare della condanna senza se e senza ma delle leggi razziali, che è stata una costante della destra, peraltro sempre schierata in difesa dell'esistenza di Israele. La cesura netta e definitiva avvenne a Fiuggi, nel 1995, al congresso di nascita di Alleanza nazionale: lì si fecero i conti non solo col fascismo, ma anche con la resistenza».

Nelle tesi di Fiuggi l'antifascismo è definito «un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato».
«Appunto. Parole molto chiare. Lì c'è un pieno riconoscimento di chi aveva combattuto per la libertà, ma anche la precisa indicazione che non tutti quelli che avevano fatto la resistenza volevano un'Italia libera e democratica. Tra loro c'era anche chi combatteva, lecitamente dal loro punto di vista, per instaurare una dittatura comunista. Con questi non avremmo mai potuto camminare insieme, ma con quelli che combatterono per dare all'Italia libertà e democrazia, sì. Combattenti della resistenza bianca erano già entrati nel Msi, altri sarebbero entrati in Alleanza nazionale».

Sono decenni che si parla delle necessità di una pacificazione nazionale. Lo fece anche Luciano Violante, nel 1996, quando diventò presidente della Camera, e lei lo ha ricordato. Ma nulla è cambiato. Ora il suo arrivo alla presidenza del Senato e quello della Meloni a palazzo Chigi segnano davvero la svolta o ci abbiamo fatto troppa retorica?
«Non credo che sia stata fatta retorica, però siamo a un crocevia. Giorgia Meloni col suo primo discorso da premier in Parlamento, io nel mio piccolo e Fdi in tutta la sua storia, abbiamo dimostrato di sapere qual è la strada giusta da prendere. Ma gli altri? Vogliono imboccare questa strada o prendere quella opposta?».

Lei che impressione ha?
«Io non so cosa vogliono fare. Il percorso che porta alla completa pacificazione e alla fine dell'interminabile dopoguerra è davanti a loro, facile da prendere. Se invece vogliono allontanarsene e continuare ad usare l'antifascismo, peraltro senza grandi risultati, come mero strumento elettorale o come alibi per dividere, nessuno glielo potrà impedire. Se sarà così, perderemo un'altra occasione».

 

 

 

Intanto ieri l'hanno attaccata per l'intervista fatta alla Stampa. Titolo: «Non festeggio questo 25 aprile».
«Quello è un titolo volutamente fuorviante, anzi decisamente falso. Dalle mie parole emerge chiaro il rispetto che ho per la quella ricorrenza. L'ho celebrata da ministro della Difesa, anche deponendo una corona di fiori sul monumento ai partigiani nel cimitero di Milano. La mia contrarietà è solo per il modo in cui finora si sono svolti molti cortei che, anziché celebrarla, ne hanno fatto una manifestazione appannaggio della sinistra. Forse qualcuno si è scordato gli insulti, o peggio, rivolti dai manifestanti ai membri della Brigata ebraica. Per citarne solo uno, al padre partigiano di Letizia Moratti».

I manichini e gli striscioni di chi vuole lei e altri esponenti di Fdi appesi a testa in giù, la mobilitazione di una parte degli studenti della Sapienza: si aspettava tutto questo?
«Se devo essere sincero, non me ne importa niente. Questo non vuol dire che non costituiscano un incitamento all'odio e un potenziale pericolo, ma sono abituato a cose peggiori. Negli anni dell'università e quando ero dirigente del Fronte della gioventù uscivo per portare fuori il cane come se andassi in trincea, ogni sera poteva esserci qualcuno che mi aspettava sotto casa. Il mio nome era in un libriccino di Lotta Continua intitolato "Pagherete caro pagherete tutto". Quindi ringrazio chi mi ha espresso solidarietà, ma non ne sento il bisogno: dipendesse da me, farei cadere un velo di indifferenza su questi episodi».

Di manifestazioni, all'epoca, lei ne ha fatte parecchie. Che doveva fare la polizia con i manifestanti della Sapienza? Intervenire come ha fatto o tenere il più basso possibile il livello di scontro?
«Non mi permetto di dare consigli, la polizia sa già che deve intervenire in modo adeguato per difendere i diritti di parola e di riunione, garantiti dalla Costituzione. Mi spiace che sia stata usata la forza, ma gli studenti di destra che volevano fare un convegno, peraltro esplicitamente autorizzato, dovevano avere la libertà di farlo. Guai se, per non limitare il "diritto" di alcuni all'odio e alla violenza, si limitasse il diritto, quello vero, degli altri a parlare. Faccio politica da tanti anni e mai mi è capitato di avere notizia di una manifestazione della destra per impedire che altri parlassero. Non appartiene proprio alla nostra cultura. Sarebbe ora che la sinistra imparasse».

L'impressione, anche dai discorsi che lei e il premier avete fatto in parlamento, è che Fdi sia avviato a diventare un partito conservatore europeo, come i gaullisti francesi e i tories inglesi. Si riconosce in questa definizione?
«Mi riconosco nell'idea di un partito conservatore che trae spunto anche dai repubblicani francesi, dai tories inglesi e dagli altri grandi partiti conservatori occidentali, che ha però una forte identità italiana. Un partito conservatore italiano fratello di quei partiti, ma non identico a loro».

Ha detto che sarà il presidente di tutti. Ma se potesse scegliere lei, che sistema istituzionale avrebbe l'Italia?
«Visto il ruolo che ho, chiedo solo che sulla seconda parte della Costituzione ci sia un confronto vero, senza reticenze, basato su ciò che serve davvero all'Italia. Come avvenne all'epoca dell'assemblea costituente. Da troppi anni manca la volontà di confrontarsi. Ne esca, poi, ciò che deciderà il parlamento, o una commissione bicamerale o una nuova costituente, se si vorranno usare questi strumenti. Le mie idee, da uomo di destra, sono intuibili: presidenzialismo e semipresidenzialismo sono le due opzioni che ritengo migliori. Ma nel mio ruolo istituzionale sarò super partes».

Approvare una simile riforma significherebbe far diventare Giorgia Meloni il De Gaulle italiano. Crede che Salvini e Berlusconi lo accetterebbero?

«La risposta gliela darò tra qualche mese. Molto dipenderà dalla prima fase del governo. Se, come credo e spero, saprà affrontare in modo adeguato le emergenze dell'energia, del fisco, del lavoro eccetera, confido che ci sia un compattamento della maggioranza e che l'opposizione voglia svolgere un ruolo patriottico, come ha cercato di fare Fdi negli anni passati. In questo caso il percorso per dare all'Italia istituzioni più solide e moderne diventerà semplice e la mia risposta alla sua domanda sarà: "Non vedo problemi"».

Altrimenti?

«Se il governo non riuscirà ad affrontare quelle emergenze nel modo dovuto, cambiare la Costituzione non sarà cosa facile...».

 

 

 

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