Il caso

Pd isolato sulle riforme istituzionali, altra figuraccia dem

Fausto Carioti

Occhio alla Costituzione. E alla calcolatrice. La prima prevede che non ci può essere alcun referendum confermativo se una legge di riforma costituzionale è approvata da ciascuna delle Camere «a maggioranza di due terzi dei suoi componenti». Che significa 138 voti al Senato e 267 voti alla Camera. Mentre la calcolatrice dice che, sommando ai voti della maggioranza di governo quelli del terzo polo e dei Cinque Stelle, si arriva a 153 a palazzo Madama e a 310 a Montecitorio: molti di più di quelli necessari ad evitare il referendum.

 

I numeri aiutano a comprendere ciò che sta succedendo attorno alla Costituzione, dove si intravede un’intesa per cambiarla che taglia fuori solo il Pd e l’alleanza rossoverde. Ieri il ministro per le Riforme istituzionali, la forzista Elisabetta Casellati, ha incontrato la delegazione dei Cinque Stelle, guidata da Giuseppe Conte: era l’ultima tappa del suo giro di consultazioni, fatto per capire se è possibile trovare l’accordo su un modello che renda i governi più stabili e magari dia agli elettori il potere di scegliere davvero chi li governa. I modi per riuscirci sono diversi: c’è l’elezione diretta del presidente della repubblica che è anche capo del governo, sul modello statunitense; c’è il sistema francese, in cui il capo dello Stato è eletto dal popolo e nomina il primo ministro; c’è la possibilità di fare su scala nazionale ciò che già si fa nei grandi comuni, lasciando accanto al “sindaco d’Italia”, eletto dai cittadini, un presidente della repubblica “di garanzia” come quello attuale. Giorgia Meloni ha già assicurato di non avere preclusioni: «I modelli si possono anche inventare, ma la riforma la voglio fare». E ieri si è capito che Conte vuole essere della partita. «Il problema dei governi che si alternano e non danno garanzia di stabilità esiste», ha riconosciuto, «come esiste il problema di rendere ancora più efficace l’attività legislativa del parlamento.

 

Ma trapiantare di sana pianta altri sistemi e sperimentarli qui ci sembra avventuroso». In sostanza, no al modello statunitense e a quello francese, ma disponibilità a studiare un modello di “premierato” all’italiana, ricalcato sull’elezione dei sindaci. Che poi è la stessa indicazione data nei giorni scorsi da Carlo Calenda a nome del terzo polo: «Siamo contrari al presidenzialismo», ma favorevoli ad «un presidente del consiglio con poteri più forti, anche eletto direttamente». L’interesse di Conte è comprensibile. Se ci fosse l’elezione diretta del premier, lui si candiderebbe con la promessa di reintrodurre il reddito di cittadinanza: difficilmente vincerebbe la sfida a livello nazionale, ma avrebbe buone probabilità di uscirne come il più votato in molte regioni del Mezzogiorno e magari come primo leader della sinistra italiana. Così, anche grazie a lui e Calenda, prende forma per la prima volta la bozza di un nuovo sistema istituzionale, fondato sull’elezione diretta del presidente del consiglio e la “sfiducia costruttiva”, ossia l’impossibilità di sfiduciare un governo in carica se contemporaneamente non si concede la fiducia a un nuovo esecutivo. Ad essere al momento fuori dal tavolo, e per loro scelta, sono il Pd e i rossoverdi, che si sono detti contrari sia all’elezione diretta del presidente della repubblica sia a quella del premier. Per il Pd che un tempo era «a vocazione maggioritaria» restare su queste posizioni, mentre tutti gli altri riscrivono la Costituzione, significherebbe isolarsi e scoprirsi addirittura ininfluente, se davvero la base parlamentare che vota il nuovo testo fosse superiore ai due terzi. Spetterà al nuovo segretario, e dunque probabilmente a Stefano Bonaccini, decidere se l’autoemarginazione è sensata. Il ministro Casellati spera sempre di trovare il «punto di incontro più largo possibile», ma intanto chiude con soddisfazione la prima parte del suo lavoro e già «la prossima settimana», fa sapere, tirerà le somme assieme alla presidente del consiglio.