Se Repubblica si scomoda a scrivere contro il ministro Giuli, ritirando fuori la storia della destra che occupa le poltrone e che vuole conquistare le casematte culturali progressiste, vuol dire che il segnale al premio Strega è arrivato forte e chiaro. E non si trattava, ovvio, di un capriccio legato ai libri non inviati al Collegio romano ma di altro. Il tempo dei vostri circoletti è finito, noi non vi renderemo omaggio. Questo il messaggio di Alessandro Giuli. Ora il punto è che, al di là degli sberleffi, occorre vedere se esiste la possibilità di un tempo nuovo, che sia soprattutto di svecchiamento più che di polemica, di arricchimento del panorama più che di sostituzione.
Stefano Cappellini su Repubblica sbaglia nel dire che la destra ha sempre avuto l’ossessione per la conquista dell’egemonia culturale. Non è così. La destra non ce l’ha avuta per troppo tempo l’ossessione per la cultura se non per quella cultura atemporale, iperurania, un po’ ingessata che aveva nutrito i quadri missini cresciuti sotto il fascismo. Un esempio? Una volta Almirante citò durante una riunione “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”. Al che un dirigente a lui vicino si sdegnò: e chi è questo Jacopo Ortis che si permette di scrivere al segretario? Altro esempio: di recente Umberto Croppi ha raccontato che Almirante gli suggerì di cambiare nome ai Campi Hobbit. «Ma quali hobbit, dovete chiamarli campi Berta». Intitolarli cioè a Giovanni Berta, giovane fascista ucciso in modo efferato dai comunisti durante il biennio rosso. Nella sezione di mio padre c’era un solo libro, Arcipelago Gulag, tutti dicevano: va letto, va letto, ma nessuno lo prendeva. Io lo presi e lo lessi un po’, per non lasciarlo lì, solo solo, tra colla e manifesti. Il Secolo aveva un inserto cultura poco letto ma dove c’erano firme prestigiose, Vintila Horia, tanto per dirne una, ma dove pure c’era chi scriveva ancora a fine anni Settanta frasi così: «Ieri Lord Brummel, oggi Lucio Dalla, ieri la coscienza di una propria dignità, oggi l’abiura di ogni decoro». E si scriveva più di lirica che di cinema. Poi arrivò Marco Tarchi a dire che occorreva lasciarsi contaminare dal proprio tempo (Almirante lo cacciò) e Pino Rauti che nei congressi esortava i camerati: «Dovete mettervi a studiare!», e si cominciò a parlare di gramscismo di destra, di metapolitica, di uscire dal tunnel della nostalgia, di recuperare l’iconoclastia sessantottina.
Il rapporto tra destra e cultura è sempre stato difficile e segnato da varie sfumature anche se- e Cappellini ha ragione - sul piano dell’immaginario c’era il Bagaglino, profondamente politico ma anche nazionalpopolare, da dove uscì quel canto “Avanti ragazzi di Buda” che egemonizza la curva Nord dell’Olimpico e che tanto è piaciuto a Orban. Ora certo i riflettori sono puntati su ciò che fa il ministro della Cultura. Giusto. Ma attorno, oltre la polemica sull’amichettismo (peraltro importata da uno di sinistra, Fulvio Abbate) non si fa rete, non si costruiscono solide sinergie tra intellettuali, scrittori, case editrici, circoli, festival culturali. Gli archivi migliori per la storia del dopoguerra, come l’archivio di Giorgio Pisanò, rischiano di andare perduti. E la convegnistica è ben lontana anche solo dall’eguagliare le giornate di studi della Fondazione Volpe degli anni ’70. Bisogna insomma fare un inventario di ciò che manca, prima di gettarsi all’arrembaggio. Che poi che vuoi arrembare mai se una serie Netflix vale dieci fiction Rai, che siano su Mameli o su Oriana Fallaci o su Peppino di Capri? Quanto alla tv, vale ancora la provocazione fatta sul Secolo anni fa: la destra è ancora in cerca del “suo” Santoro. E magari è solo pigrizia e non complesso di inferiorità. Sono bastate due grandi mostre per far saltare i nervi a molti. Per rendere guardinga e sospettosa la parrocchietta progressista. Pensate cosa potrebbe succedere se la destra si mettesse a fare sul serio...