Il sindaco Sala può saltare, aggrappato al grattacielo, sta decidendo cosa fare: tirare le cuoia o tirare a campare? Dimissioni o rilancio? Accettare di stare al guinzaglio del Pd (che ha chiesto «cambiamenti» con il tono di un penultimatum, facendo intendere che la linea finora seguita dal primo cittadino non va più bene) o liberarsi dell’ombra dei compagni e tornare a fare l’uomo libero? Una mia fonte da destra mi dice che «Sala non si dimetterà, sostituirà l’assessore Tancredi e tirerà a campare, ma alla fine la Giunta non arriverà alla fine della consiliatura e andremo al voto anticipato»; un insider da sinistra mi confida che «sono in corso ragionamenti gravi sulla situazione della maggioranza a Palazzo Marino, perché Beppe si sente trafitto dalla gelida manina del Pd e non vuole diventare il parafulmine delle contorsioni di un partito che si è consegnato ai movimenti anti -sviluppo». Sala vuole rassicurazioni, pretende un segno tangibile dal Pd, prima di tutto lo sblocco del dossier sullo stadio di San Siro e molto altro (che fare con i cantieri bloccati e le famiglie nella disperazione, compagni?), fatti e non parole che forse i dem non potranno né vorranno concedere. L’appuntamento con il grande dilemma è domani in Consiglio comunale, il dado è tratto?
Chi è Giuseppe Sala? Bisogna partire da questa domanda per capire lo scenario della crisi a Milano. Beppe è il manager diventato sindaco (e politico con aspirazioni da leader nazionale) che vuol riprendersi la sua indipendenza o un primo cittadino aggrappato al grattacielo che per non cadere è disposto a accettare il commissariamento della sua persona?
L’uomo è tutt’altro che prevedibile, razionale ma non inscalfibile di fronte al “tradimento” dei compagni di viaggio. Quel che appare evidente è il fallimento del suo esercizio di equilibrismo, al primo colpo di cannone (della magistratura) sono saltate fuori le iene della sinistra per banchettare sulla sua carne, da vivo destinato a essere zombificato.
Sala non è un «compagno» della fabbrichetta post-comunista, è un prodotto della blasonata officina della Bocconi, che si è illuso di poter domare le fiere della sinistra, incantare i serpenti del progressismo no global, ipnotizzare gli avvoltoi della decrescita felice.
Ora se li ritrova tutti addosso a ruggire e volteggiare, ha commesso l’errore più grave per un politico, pensare di tenere insieme un’alleanza anti-industriale a Milano, come radunare dei vampiri di fronte a una banca del sangue. Schlein ha mandato all’aria il suo piano da funambolo, i suoi guai cominciano quando Elly fa il sottosopra del Pd e sogna il campo largo con tutti quelli che fanno a sportellate con la biografia di Sala.
LA “CARRIERONA” DI BEPPE
La storia di Beppe è quella del “nemico” di classe, è la figura perfetta su cui scaricare l’arsenale ideologico dell’anti-capitalismo di cui questo Pd ha fatto il pieno negli anni della rivoluzione guidata da Elly Schlein, quella che ha ridotto l’area riformista del partito a comparsa in un palcoscenico dominato da massimalisti del pensiero minimo come Pierfrancesco Majorino. Partiamo dall’inizio di tutto, la carrierona in prima classe. Giuseppe Sala, noto “Beppe”, classe 1958, si laurea in economia e commercio nel 1983 all’Università Bocconi, la sua ascesa parte come un fulmine, entra subito alla Pirelli e scala le posizioni fino al vertice, appena quarantenne, nel 1998, diventa amministratore delegato di Pneumatici Pirelli. L’uomo va a tutta velocità e non derapa, bocconiano e “enfant prodige”, è quanto di più lontano dal curriculum di un funzionario di piani quinquennali uscito da Botteghe Oscure.
Dalla gomma su strada, balza con la tigre nel motore sul filo del telefono e del cavo di Internet, entra in Tim nel 2002 e poi va a fare il direttore generale di Telecom Italia dal 2003 al 2006. Beppe è lanciatissimo, la sinistra e la politica sono un’isola remota, nel suo orizzonte c’è solo il Gran Premio del manager di una Milano che sta recuperando il tempo perduto durante gli anni bui di Tangentopoli. Non fa girotondi, sfreccia dritto e centra un altro obiettivo, stavolta nella finanza, diventa consigliere dei giapponesi di Nomura, uno dei Sancta Santorum della finanza globale, che per la sinistra “Ellysta” è un luogo di perdizione.
Nel 2009 Sala comincia a annusare l’aria della politica, ma sempre con un incarico da tecnico, vicino e distante, il sindaco Letizia Moratti lo chiama per l’incarico di City Manager, lui accetta e dimostra di saperci fare, tanto che nel 2010 diventa amministratore delegato di Expo 2015 Spa, la creatura che deve realizzare l’Esposizione Universale, operazione titanica lanciata dal centrodestra e conclusa con tocco scenografico da Matteo Renzi.
L’identikit di Beppe non corrisponde al manager rampante della sinistra, fino a quando il sinistro anomalo, Renzi, non scorge in Sala un prototipo della sua idea di ripopolamento della foresta progressista. Renzi usa l’uomo macchina dell’Expo, coopta Beppe nel suo sistema di potere e lo trasforma abilmente in un pezzo nuovo della scacchiera del Pd “blairiano”, con vent’anni di ritardo sull’era di Tony Blair.
Sala è in stato di grazia, battezzato dal successo, sussurra ai potenti, conduce una vita che è quella di un borghese con solide amicizie nei salotti dell’industria e della finanza, non è il Subcomandante Marcos che lotta per il proletariato. Nel 2015 arriva la puntata giusta sulla roulette della politica, Beppe si candida alle primarie del Pd, le vince e va al ballottaggio nelle elezioni per il sindaco di Milano dove batte il candidato del centrodestra Stefano Parisi.
Signore e signori, ecco a voi il sindaco democratico non più tecnocratico, da City Manager della destra morattiana a primo cittadino del Pd renziano, che salto. La sua fortuna cresce nella confusione dei democratici che nel frattempo si impegnano a fondo nel loro sport preferito, la scissione dell’atomo. Renzi nel 2019 molla i compagni e fonda il gruppo parlamentare di Italia Viva, crac!
DIFFIDENZE A ROMA
Beppe non si scompone, ci prende gusto a ballare da solo, (ri)vince le elezioni a sindaco nel 2021, questa volta al primo turno contro il candidato del centrodestra, l’ectoplasma Luca Bernardo. La strada è spianata, lo skyline di Milano è lo scenario perfetto, c’è l’occasione per cominciare a progettare la scalata al Pd, nonostante la vittoria di Elly Schlein e il ribaltamento del partito.
Il piccolo establishment del potere romano non lo ama, quel Beppe è solo un refuso storico del renzismo e poi tutti quei grattacieli, i costruttori e gli industriali, la finanza e le pagine patinate sulla Milano che sembra di nuovo quella da bere del Bettino, che c’azzeccano i soldi di City Life con la retorica del “poraccismo” del partito di Elly? Agli alleati del Pd fa ancora più ribrezzo, il Movimento Cinque Stelle è agli antipodi e a Milano con lui non c’è trippa per gatti, i Bonelli e i Fratoianni lo scansano, gli ecologisti lo sopportano perché lui distribuisce piste ciclabili e vara il kamasutra del traffico di Milano, non falcia l’erba per preservare gli insetti e pensa ai prossimi dieci anni della «città della conoscenza». Pensa in grande e in lungo, Beppe. Il suo rito ambrosiano è «divide et impera», ma lontano s’odono i sinistri scricchiolii di una stagione che sta implodendo.
Tutta la sua biografia parla di «intelligenza con il nemico», lui cerca di far tesoro del detto «pas d’ennemis à gauche» (nessuno nemico a sinistra) e per contrastare il sospetto di essere ambidestro fa dichiarazioni che sembrano uscite dalla bocca di un Avatar che recita il libretto rosso del radical chic: Sala diventa il classico caso del manager che piace alla gente che piace, tutto teatro La Scala e biciclettata al parco, una sinfonia per l’élite della Ztl (che vota in massa il Pd), ma una minaccia per quelli che vogliono la presa della Bastiglia e cominciano a accarezzare l’idea di farlo cadere dalla torre, da uno di quei grattacieli che i compagni associano alle «destre».
RIFORMISMO LIQUIDATO
L’operazione prende corpo quando i magistrati s’intignano sulle concessioni edilizie e lo sviluppo verticale della metropoli, olè, la testa di Sala è servita sul piatto d’argento. Lui si incazza, chiede il Salva-Milano in Parlamento, il Pd con il concorso dei pm lo affonda, Beppe resta solo.
Questa storia di ascesa e declino è un drammatico gioco di coltellate a sinistra, è la liquidazione dell’ultimo pezzo di riformismo rimasto a sinistra, è soprattutto la fine dell’illusione di Sala, governare la confusione ideologica distribuendo pani e pesci alle fazioni in lotta, tenere insieme Greta Thunberg e Piazza Affari, gli utili idioti di Hamas e la Brigata ebraica, il Salone del Mobile con il divieto di fumo all’esterno. Si può insistere fino all’accanimento terapeutico, aggrapparsi al grattacielo con i giacobini che gli chiedono di abbatterlo, ma alla fine le contraddizioni esplodono. Non è una questione giudiziaria, ma profondamente politica, è la storia della crisi della sinistra che non sa che farsene della democrazia, del mercato, della libertà, del denaro e del lavoro. Il sindaco di Milano è al bivio, ha davanti il fallimento della sua idea, sognava il fusionismo dei rivoluzionari, alla fine hanno fuso lui. Domani ne sapremo di più, lascia o rattoppa?