C’ è qualcosa di grottesco, quasi comico, nel vedere certa sinistra radical snob scagliarsi con veemenza contro il nuovo Codice unico per lo spettacolo, accusandolo di voler “imporre” l’italianità. Ma davvero - nel Paese di Verdi, Puccini e Rossini siamo arrivati al punto in cui parlare di Italia è sospetto, come se difendere il proprio patrimonio culturale fosse un gesto d’intolleranza?
Il nuovo Codice, tra i suoi molti punti, introduce un principio di buon senso: favorire la programmazione e la valorizzazione delle Opere italiane, del nostro repertorio nazionale, delle musiche che hanno costruito l’identità stessa dell’Europa. Eppure, apriti cielo: titoloni indignati, dichiarazioni sdegnate. Come se l’idea di dare spazio a Cimarosa, a Paisiello, a Bellini o a Donizetti fosse un atto sovversivo.
In Francia, per esempio, Jean-Philippe Rameau è un monumento nazionale: viene eseguito ovunque, sostenuto dai teatri pubblici, promosso nelle scuole, e nessuno si sogna di gridare al “neonazionalismo musicale”. In Germania, Händel e Weber sono parte del Dna culturale. In Russia si studiano Glinka, Musorgskij e Rimskij-Korsakov come pilastri identitari. In Inghilterra, Britten è tutelato come Shakespeare. Ma in Italia, no. In Italia, appena osi pronunciare la parola “italianità”, qualcuno si alza a dire che “suona male”, che “è divisiva”.
Ma cosa c’è di divisivo nel voler riscoprire i nostri tesori dimenticati? Ci sono autori che attendono solo una nuova luce: Giovanni Pacini, Nicola Vaccaj, Carlo Coccia, Placido Mandanici, e poi le delizie del Settecento napoletano — Anfossi, Jommelli, Traetta — con partiture che il mondo ci invidia e che restano chiuse negli archivi. Persino nel Novecento ci sono figure straordinarie come Franco Alfano, Riccardo Zandonai, Italo Montemezzi, Nino Rota, Ottorino Respighi, Pizzetti, Malipiero: un secolo di musica che abbiamo dimenticato, spesso per snobismo ideologico, o per sudditanza a mode culturali straniere.
Il Codice unico per lo spettacolo non “impone” nulla bensì invita e difende quello che culturalmente abbiamo. Invita i teatri a riscoprire il loro ruolo di custodi del patrimonio nazionale, a produrre senza più contare su deficit cronici, a pagare le prove, le trasferte, i professionisti, e a responsabilizzarsi davanti al pubblico e ai fondi pubblici. È una norma di civiltà, non una catena. Ma questa parola, “civiltà”, sembra far paura a chi da anni confonde la cultura con l’autoflagellazione.
In realtà, dietro a tanto furore si nasconde un fastidio più profondo: il fastidio per tutto ciò che richiama la parola Italia. Perché per certa intellighenzia, “italiano” è sinonimo di passatista, reazionario, conservatore. E allora meglio un regista tedesco che sposta la Norma in una clinica psichiatrica, meglio un Otello biondo con la lavatrice in scena, piuttosto che dare voce a una partitura di Pacini o a un dramma verista dimenticato.
Così, tra una lavatrice e un cappotto di cuoio, si è perso il rispetto per la radice stessa del nostro teatro musicale. Eppure il pubblico — quello vero — lo sa. Lo sente, lo chiede, lo invoca: vuole l’Opera italiana, le sue melodie, i suoi valori, la sua lingua. È l’unico vero “brand” internazionale che ancora ci appartiene. Difendere questo è cultura, è dignità. E chi si vergogna dell’Italia, forse, dovrebbe vergognarsi di sé stesso.