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Se la sinistra si accorge che si fa la Padania

In ambienti non sospetti da tempo viene riproposta la questione settentrionale in termini un tempo improponibili

Andrea Tempestini
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Nel gran tramestio politico di questi giorni rischiano di restare in secondo piano alcuni segnali piuttosto interessanti. Da tempo in ambienti non sospetti, prevalentemente di sinistra, viene riproposta la questione settentrionale in termini un tempo improponibili. Aveva cominciato Illy, poi seguito sempre meno timidamente da altri. Negli ultimi tempi sono stati gli economisti – Ricolfi in primis – a parlare di fratture e a ripescare il temuto tabù della secessione. Il tema ha cominciato a viaggiare sotto traccia destando fibrillazioni e timori che hanno costretto Fini e Ferrero - patriottici compagni di letto – a proclamare sicuri che «la Padania non esiste» e a far giungere  l'anatema addirittura dal più alto Colle. L'altro giorno Panebianco ha risposto alla voce più autorevole d'Italia che la Padania esiste ma che forse non si chiama così. Su L'Espresso il patriarca Giorgio Bocca ha fatto una lezioncina al suo coetaneo e altolocato compagno: «La Padania esiste e si chiama Padania, ma non bisogna lasciarla in mano ai leghisti». Non è finita: qualche giorno fa  uno stuolo di accigliati intellettuali progressisti si è riunito alla Statale di Milano per cercare di capire come la Lega abbia potuto sciogliere temi e preoccupazioni così importanti  in una brodaglia di segni e simboli picareschi. C'è da stabilire ora se tutto questo interesse sia frutto di sincere preoccupazioni e di ritorni di fiamma verso antiche pulsioni autonomiste della sinistra, e di nostalgia per le “repubbliche socialiste e soviettiste” in cui Ruggero Grieco voleva dividere la penisola, o se non sia piuttosto la frenesia che prende i topi poco prima che la nave affondi. È anche antropologicamente curioso registrare che, a fronte di questo “impadanamento” progressista, si verifichino fenomeni del tutto opposti nello schieramento leghista che invece ha sempre fatto di queste tesi la colonna portante della sua azione politica. La Lega vive giorni di pesanti sconvolgimenti che – come sempre avviene scuotendo amalgame e minestroni – fanno venire a galla tutte le scorie. Così Reguzzoni e Tosi hanno cominciato a dire di «non essere mai stati secessionisti» o che «si dice tanto per dire», che insomma la Padania sia niente più che un espediente dialettico. A loro si aggiunge con la consueta delicatezza Gentilini, che è un amministratore straordinariamente capace ma che proprio non riesce a contenere le sue eruzioni verbali. Scappano alcune facili considerazioni: 1 – Ci sono leghisti di rango che non conoscono lo Statuto del partito e segnatamente il suo primo articolo (“l'obiettivo è l'indipendenza della Padania”); 2 – la scarsa “fortuna” di Bossi nel scegliere i suoi uomini è patologia di vecchia data; 3 – la ferrea disciplina leninista del partito è un lontano ricordo. Oggi che tutto sembra precipitare, qualcuno forse si attrezza sia pur tardivamente, chi aveva accumulato le capacità di gestire il cambiamento se ne sta rapidamente liberando, chi non ha ancora visto l'orlo del precipizio continua serenamente a non vederlo. La terrorizzante prospettiva è che nessuno sarà davvero in grado di gestire il traumatico cambiamento che sta per arrivare.  «State pronti perché non conoscete il giorno e l'ora»: non è sulla Costituzione ma su un testo più autorevole ma molto meno frequentato nel Palazzo. di Gilberto Oneto

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