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Silvio: guardo in faccia i traditori

Il piano del premier: approvare il rendiconto, quindi la fiducia sul maxiemendamento. Partendo dal Senato

Lucia Esposito
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L'avevano convinto. Pensavano di averlo fatto. Illusi. È domenica notte. Notte fonda: Roma è deserta, la pioggia ha scoraggiato i tiratardi. Le auto di Gianni Letta e Angelino Alfano lasciano Palazzo Grazioli, entrambi vanno via con la sensazione di «aver fatto ragionare il capo». Come loro, tutti i dirigenti azzurri, nelle ultime ore, hanno insistito nel ripetergli questa cosa. Come un lavaggio del cervello: «Montecitorio è il Vietnam». D'accordo, oggi il Rendiconto generale dello Stato passerà con le astensioni di opposizioni e frondisti, perché così ha deciso il Capo dello Stato. Ma un minuto dopo ci sarà il rompete le righe. Gli uomini più fidati illustrano al premier un quadro devastante dei numeri della Camera, gliela mettono giù dura. Drammatica. E quello che più deprime il presidente del Consiglio è la provenienza delle coltellate. I fedelissimi. Almeno coloro che lui considerava tali.  Con l'amaro in bocca, Berlusconi va a nanna. Si risveglia come s'era addormentato. Di cattivo umore. La colazione, il té, i giornali.  La telefonata con Giuliano Ferrara, al quale Silvio rivela l'intenzione di voler, quasi quasi, gettare la spugna. Parole che il direttore del Foglio riporta sul sito del quotidiano: «Che Berlusconi stia per cedere il passo ormai è una cosa acclarata». Stessa sensazione intercettata  dal vice direttore di Libero Franco Bechis, che ne scrive su Facebook e su Twitter. La notizia fa il giro del mondo, Piazza Affari rimbalza: scende lo spread, sale l'indice Mibtel. Nel frattempo Silvio arriva ad Arcore, dove ha in programma un pranzo con i figli Marina e Pier Silvio e con Fedele Confalonieri. Dalla Brianza adesso Berlusconi fa sapere che no, non è vero niente, lui a lasciare non ci pensa affatto: «Le voci di mie dimissioni sono destituite di fondamento», è la velina ufficiale. Versione confermata a Libero e al capogruppo  del Pdl Fabrizio Cicchitto: «Non mi dimetto, domani (oggi, ndr) si vota il rendiconto alla Camera, quindi porrò la fiducia sulla lettera presentata a Ue e Bce: voglio vedere in faccia  chi prova a tradirmi». Il differenziale con i titoli tedeschi riprende quota, torna a 480.   Domanda: chi ha fatto cambiare idea a Berlusconi? Marina e Confalonieri, sostiene qualcuno. L'hanno invitato a resistere - è la motivazione -  per il bene delle aziende di famiglia. Secondo altri è stato Ferrara. L'Elefantino è il motivatore ufficiale del Cavaliere, lo spinge alla pugna, perché una storia di quasi vent'anni non può finire così. Nella polvere. La verità? È che la domanda non esiste, perché Berlusconi non ha mai pensato sul serio di mollare Palazzo Chigi. Sono i dirigenti azzurri, quelli che lo stanno scongiurando di fare un passo indietro («Solo così, Silvio, puoi avere voce in capitolo sul nuovo governo»), che accreditano la notizia di possibili dimissioni. E che continuano a sottoporgli ipotesi di exit strategy. L'ultima, di ieri sera, prevedeva un ticket del genere:  Letta (o Schifani) presidente del Consiglio e Monti ministro dell'Economia. Il tutto con una base parlamentare formata dall'attuale maggioranza allargata al terzo polo. Arabo, per Berlusconi. Che inizia a sospettare della lealtà di alcuni dei suoi colonnelli («È singolare questa insistenza nel chiedermi un passo indietro») e che si dimostra insensibile anche alle pressioni della Lega: «Prendiamo atto che la maggioranza non c'è più e gestiamo la situazione», è il messaggio che Calderoli avrebbe portato ad Arcore nel pomeriggio. Balle. Il Cavaliere non ne vuole sapere: torna a Roma in serata e comincia a  scavare la trincea. Silvio sa che oggi alla Camera affronterà la prima battaglia campale. I numeri (314, maggioranza sì ma non assoluta) costeranno la chiamata al Quirinale: il capo del governo è preparato a questa evenienza. A Napolitano il premier chiederà qualche ora di tempo: «Verificherò la fiducia in Parlamento sull'agenda europea», prima al Senato e poi alla Camera. È sicuro della lealtà di Palazzo Madama, quasi certo dell'agguato che lo aspetta a Montecitorio. Sicché, ottenuto il sostegno della Camera alta e prima della Caporetto di quella bassa, Berlusconi tornerà al Colle per dire: Egregio presidente, non ci sono le condizioni per un esecutivo diverso dal mio, l'unica alternativa è il voto anticipato. Questo è il piano. Intanto il Cavaliere prova l'ultimo assalto ai frondisti, che vengono corteggiati in ogni modo. Coloro che  non cedono alle tentazioni si beccano la maledizione berlusconiana: «Sono degli stronzi, ecco cosa sono. Ma io non mollo, non mi dimetto, non lascio il Paese in mano a dei principianti: non sono alla mia altezza». L'orgoglio prevale sulla ragione: «Le dimissioni del sottoscritto darebbero una soddisfazione  troppo grande ai miei nemici: non se ne parla proprio», schiva l'ultimo assalto di Letta e compagnia.    Se avesse la macchina del tempo a Silvio basterebbe andare avanti di tre settimane. Tanto gli basta per scampare il pericolo dimissioni e proiettarsi verso le urne anticipate. Oramai solo a quello pensa, Berlusconi. Il lessico del leader è già  da campagna elettorale: «Se gli schemi parlamentari portassero a un ribaltone nel quale la sinistra va al governo non saremmo in democrazia», tuona in un collegamento telefonico con una manifestazione del Pdl a Monza. Attacca Tremonti («In Italia il premier conta meno del ministro dell'Economia») e giura che non è finita:  «Non sono attaccato alla cadrega, ma sono convinto che avremo la maggioranza per fare le riforme». Lui è convinto. di Salvaore Dama

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