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Così Mario ha deluso l'Europa

Le richieste inviate da Bruxelles al nostro governo sono state in gran parte disattese: lavoro, liberalizzazioni, grandi opere

Giulio Bucchi
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Una cambiale non pagata resta comunque una cambiale. E non basta un voto di fiducia per trasformarla in medaglia. Il governo di Mario Monti rischia di farsi tirare le orecchie da Bruxelles. E questo perché la Lettera d'impegno - consegnata ai mandarini dell'Unione europea lo scorso 26 ottobre dall'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi - prevedeva scadenze precise e obblighi dettagliati. Le famose 14 pagine di impegno prevedono interventi per la crescita economica e le infrastrutture, un corposo piano di dismissione del valore di 15 miliardi (su base triennale), l'introduzione della mobilità nella pubblica amministrazione, nuove norme sui licenziamenti (con un sistema di ammortizzatori sociali), un portentoso piano per il Sud, l'avvio delle liberalizzazioni e un deciso cambio di marcia per il nostro sistema pensionistico e per quello fiscale. Ebbene su molti di questi punti Monti è già in ritardo. Basta scorrere le date accanto ad ogni promessa assunta a Bruxelles per rendersene conto. Agli euroburocrati interessa poco delle «resistenze fortissime» e delle lobby. Importa il risultato. E, pensioni a parte, nel carniere del Professore per ora c'è ben poco. Revisione dell'articolo 18 (licenziamenti) e mobilità restano un tabù. «Se ne parlerà presto», ma al ministero del Welfare solo per l'assegnazione delle deleghe ai sottosegretari sembrano un po' stitici, figuriamoci per il resto. E poi sarà pur vero che dal 2012 andranno in soffitta le pensioni di anzianità, però con tutte le deroghe concesse alla “classe 1952”, più di qualcuno in sede europea teme che l'effetto diluito degli interventi per accontentare le varie anime politiche e sindacali possa essere ben diverso dalla promessa di andare in pensione tutti a 67 anni (entro il 2026). Capitolo quantomai imbarazzante quello sulle liberalizzazioni: il nostro governo aveva giurato ad ottobre di varare entro il 1 marzo 2012 un programma di liberalizzazioni che oltre a taxi, edicole e farmacie avrebbe dovuto stravolgere le rigidità in materia di servizi pubblici (acqua, trasporti e rifiuti). Ebbene è bastata la minaccia di serrate a macchia di leopardo (gli edicolanti hanno già proclamato uno sciopero da martedì 27 a giovedì 29 dicembre), per far fare marcia indietro. La promessa, lo ha ribadito anche Corrado Passera, è che «andremo avanti». Però il cronometro europeo corre. Addirittura esilarante l'assicurazione di riuscire a mettere in piedi un piano di dismissioni entro il 30 novembre. Nel testo del decreto Monti si fa solo un generico riferimento all'impegno di affidare all'Agenzia del Demanio «la costituzione di società, consorzi o fondi immobiliari per valorizzare o alienare il patrimonio immobiliare pubblico». A caccia disperata di quattrini Palazzo Chigi avrebbe almeno potuto coinvolgere gli agricoltori nel piano di vendita dei terreni (gettito stimato da Coldiretti in 6 miliardi), e invece siamo ancora fermi a «ridefinite le norme per la dismissione». Del piano per il Sud se ne parla tanto (da almeno mezzo secolo) eppure abbiamo firmato un impegno a Bruxelles a «ridurre il divario con il Nord». A febbraio il “piano Sud” dovrebbe essere pronto. Ma non ce n'è traccia. E che dire del project financing? Il governo ha sì deliberato, tramite il Cipe, lo sblocco di opere per 13 miliardi. Ma si tratta di cantieri già aperti. E i privati al momento restano all'uscio. C'è poi la questione fiscale. Entro il 31 gennaio il Parlamento dovrebbe approvare la delega fiscale. Al momento c'è stata solo una sventagliata di tasse per 25 miliardi. E il rischio è che il 30 settembre vengano recise del 5% le agevolazioni per coprire 4 miliardi di buco. Il Parlamento riaprirà dopo l'Epifania. In 20 giorni riuscirà ad approvare la delega? Monti assicura che si sta già lavorando alla “fase due”. Basterebbe però completare i punti obbligatori della “fase uno”. Carta canta, siamo in ritardo. di Antonio Castro

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