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Pansa e le grane Pd: l'Orlando tignoso uccide le primarie

A Palermo l'ex sindaco, oggi Idv, si ricandida per la quarta volta dopo aver sostenuto (e perso) Rita Borsellino

Giulio Bucchi
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A volte raccontare la politica italiana fa ritornare giovani. Il motivo è uno solo: nella casta le facce nuove sono rare e quelle vecchie restano al potere per anni. Così ti capitano fra le mani signori che hai conosciuto molto tempo fa, ma oggi ancora in sella. È il caso di Leoluca Orlando, il numero due dell'Italia dei Valori, che venerdì per l'ennesima volta si è candidato a sindaco di Palermo. Quando ho conosciuto Orlando? Forse nel febbraio 1986, quando andai a Palermo per seguire il maxiprocesso alla mafia. In quel momento, a Palazzo delle Aquile, la splendida sede del municipio, sedeva come sindaco Leoluca. Aveva 39 anni, era democristiano, ma piaceva a molti, compresi i socialisti. Qualcuno dirà: «Impossibile!». Eppure era così. In quel gennaio, Bettino Craxi, presidente del Consiglio, andò in visita ufficiale a Palermo e disse di Orlando: «Il valore principale della mia presenza qui sta nell'atto di fiducia che il governo, e io personalmente, compiamo nei confronti degli amministratori di questa città». Orlando piaceva anche a me. E insieme a lui mi piaceva il suo consigliere spirituale e politico, il gesuita padre Ennio Pintacuda. Ero stato molte altre volte a Palermo, di solito per raccontare stragi di mafia o misteri irrisolti, come la scomparsa di Mauro De Mauro, un collega dell'Ora fatto sparire da Cosa Nostra. Ma dal 1985, con Orlando sindaco, si respirava un'aria meno fetida. Anche la palude della politica siciliana sembrava meno repellente. Nel maggio 1990, alle elezioni amministrative, Orlando si ripresentò. Il suo avversario più pericoloso non stava in agguato a Palermo, bensì a Roma. Era Giulio Andreotti, in quel momento capo del governo per la sesta volta. Nel corso della Tribuna elettorale del 3 maggio, Paolo Mieli gli chiese: «Se lei fosse cittadino di Palermo, voterebbe per la Dc e darebbe la preferenza al sindaco uscente, Leoluca Orlando?».  Il Vecchio Mandarino guatò Mieli con gli occhi a fessura. Poi le labbra a salvadanaio lasciarono gocciolare una replica al vetriolo: «Se fossi a Palermo voterei certamente per la Dc, ma dal numero due in poi». Era una bocciatura per Orlando e un invito a votare per Mimmo Di Benedetto, uomo di Salvo Lima, il proconsole andreottiano in Sicilia. Anch'io pensai: povero Leoluca, il Mandarino ti ha fatto davvero uno scherzo da prete. In realtà, a fare lo scherzo da prete ad Andreotti furono gli elettori democristiani di Palermo. Votarono sì per lo Scudo crociato, regalandogli un risultato da record. Ma non ubbidirono al Presidente del consiglio e alla sua pubblicità negativa. Su 200 mila voti di lista, Orlando raccolse 70 mila preferenze. Il secondo eletto al consiglio comunale, Totò Cuffaro, oggi in carcere, si fermò a quota 19 mila. L'anti-Orlando sponsorizzato da Andreotti risultò quarto, con 14 mila voti.  La vittoria di Leoluca durò pochissimo. Alla Dc siciliana non importava un fico della volontà degli elettori. In agosto, a fare il sindaco di Palermo venne spedito un candidato del Grande Centro. Si chiamava Domenico Lo Vasco e di lui non ricordo assolutamente nulla. Orlando seguitò a combattere, incontrando altri avversari. Primo fra tutti il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Irritato per una replica di Leoluca, a proposito della guerra a Cosa nostra, il capo dello Stato lo bollò con sarcasmo: «È un ragazzo intemperante che ha danneggiato la lotta contro la mafia!». E già che c'era, Cossiga se la prese anche con Pintacuda: «Un prete fanatico che crede di essere nel Paraguay del 1600. I superiori dovrebbero riservargli uno sguardo più attento». Poi venne la stagione terribile del 1992, con le stragi che uccisero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Orlando continuava nella battaglia contro la mafia e la politica mafiosa. Si stava allargando e aveva creato un movimento, la Rete. In veste di leader del piccolo partito, nel gennaio 1993 Leoluca venne a trovarmi all'Espresso. Viaggiava scortato dalla polizia di Stato. Gli agenti erano marcantoni con facce da ragazzi. Armati di pistole Beretta che sembravano cannoni. Orlando era sempre l'uomo delle sorprese. Quel giorno mi spiegò che voleva fondare un giornale quotidiano, da far nascere a Palermo e in grado di arrivare al nord, seguendo il percorso inverso delle grandi testate. Disse: «Caro Giampaolo, sono venuto a trovarti perché sarai tu a dirigere il nostro giornale». Risposi subito no. E non mi lasciai convincere dal fervore di Leoluca che, scuotendo il ciuffo, parlava, parlava, parlava. Compresi che era partito per la tangente. Ritornato alla guida del comune di Palermo, adesso puntava a diventare un leader politico nazionale. L'occasione si presentò all'inizio del 1994, non appena si aprì la campagna elettorale dominata dallo scontro fra Silvio Berlusconi e Achille Occhetto. La Rete si riteneva un cardine dello schieramento di centrosinistra e Orlando mise subito in mostra una vena di razzismo politico abbastanza suicida. Riunì la Rete a Riccione e lanciò un grido di guerra: «Nell'alleanza progressista non voglio né Ottaviano Del Turco né Giorgio La Malfa». Quale fosse la colpa di La Malfa non la rammento. Del Turco andava bocciato perché da effimero segretario del Psi non aveva espulso dal partito Craxi e Gianni De Michelis. Orlando e il suo numero due, Nando dalla Chiesa, non smisero neppure per un istante di urlare questo anatema. Leoluca aveva l'aria dell'invasato in preda a un trionfalismo pericoloso. Era convinto di passare dal municipio di Palermo a Palazzo Chigi. Si diceva sicuro di vincere a mani basse in tutta la Sicilia. I Verdi gli proposero un accordo elettorale, ma li mandò a quel paese. All'inizio di febbraio s'iniziò la rissa per l'assegnazione dei collegi elettorali. Orlando chiese per la Rete la maggioranza di quelli siciliani. Stava avanzando il disordine. Tanto da spingere Massimo D'Alema a descrivere lo stato dell'alleanza progressista con un aggettivo solo: «Catastrofico». Una leggenda vuole che sia stato Orlando a coniare l'immagine della Gioiosa Macchina da Guerra, poi rubatagli da quel furbone incauto di Occhetto. Sta di fatto che non poteva esserci uno slogan più autolesionista e iettatorio. Berlusconi vinse e Occhetto fu costretto a lasciare la poltrona di segretario del partito, passandola a D'Alema. Pensavo che anche Orlando, prima o poi, si sarebbe ritirato a scrivere le proprie memorie. Ma la politica è la droga più potente. E impone a chi la usa di non mollare mai. Siamo ai giorni nostri. Da tempo Orlando ha fatto coppia con un leader che appariva lontanissimo da lui: Tonino Di Pietro. E invece tra i due sembra esserci una sintonia indistruttibile. Si spiega soltanto così, e con la voglia di restare sulla scena, la decisione di candidarsi per l'ennesima volta a sindaco di Palermo. Un gesto da tignoso amante del caos che distrugge le primarie e dà inizio a un'altra guerra interna al centrosinistra. Posso confessare che non me ne frega nulla? Mi accorgo di essere sempre di più in sintonia con un detto di Beniamino Andreatta. A proposito di Orlando l'ha citato Stefano Ceccanti, esimio giurista e senatore del Partito democratico: «Attenti alla gelosia dei vecchi che vogliono morire governando». di Giampaolo Pansa

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