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Alessandro Del Piero umiliato dagli indiani: riserva nel torneo del maragià Materazzi

Andrea Tempestini
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Chi pensava che mai e poi mai uno come Alessandro Del Piero potesse finire a far panchina nel campionato indiano di calcio, dimentica che da quelle parti hanno inventato il Kamasutra: piazzarlo in quel posto ad Alex è stato un attimo. Namasté. Negli ultimi due turni l'allenatore dei Delhi Dynamos ha lasciato l'ex capitano della Juventus a bordocampo, là dove si accomodano fotografi e branchi di hippie in contemplazione. La squadra ha pure vinto due partite di fila: 2-1 con l'East United e 4-1 col Mumbai nel caldissimo «derby delle metropoli», in pratica un Roma-Napoli ma con più pollo al curry e meno morti ammazzati. Molto signorilmente il Ct Van Veldhoven (che è un olandese rinnegato passato alla cittadinanza belga, e abbiamo detto tutto) ha colto la palla al balzo per bullarsi della scelta tecnica, travestire il colpo di culo da intuizione geniale e liquidare il caso Del Piero con un «lo schiererò quando ne avrò bisogno». Manco stessimo parlando d'una mezza calzetta, di un caso umano o - peggio ancora - dell'ultimo Pato visto al Milan. Però era inevitabile. Del Piero s'è fatto trascinare dalla sua dipendenza, quella dal calcio, oltre i confini dell'Asia, dell'Oceania e a un certo punto anche della decenza. Ha inseguito l'erba, le voci del campo, il fiatone, la soddisfazione di un passaggio coi tempi giusti, il senso di onnipotenza d'un dribbling riuscito fino a perdersi e restare indifeso. Cosa ci fa un campione del mondo nel baraccone di quattro magnati dell'acciaio che hanno deciso di darsi al soccer per avere più appeal nei cocktail party che frequentano qui in Occidente? Poteva appendere le scarpe al chiodo dopo la Juve, avvolgersi di gloria inossidabile, misurare i bianconeri dei prossimi cinquant'anni contro la propria grandezza, idolatrato come è concesso solo ai predestinati. Invece ha traslocato in un posto dove idolatrano le vacche (l'unico oltre all'Italia, perlomeno). La tifoseria indiana non gradisce l'esclusione di Pinturicchio e protesta sui social, ma l'onta è impossibile da lavare. Gioca un certo Hans Mulder (è olandese, vabbè, sarà il cocco del mister); gioca Pavel Elias (Repubblica Ceca, mai sentito); gioca Mads Junker (Danimarca, top club in carriera: Vitesse) e non gioca Del Piero Alessandro da Conegliano: 188 gol con la Juve, 6 scudetti, una Champions e un Mondiale con l'Italia solo per citare lo stretto indispensabile. Un ben di Dio che quando Alex siede in panchina al Jawaharlal Nehru Stadium equivale ad affiggere la Gioconda col sorriso rivolto al muro: è lì, ma non puoi godertelo. Se Del Piero aveva un dovere, era evitare che gli accadesse tutto ciò. Bastava realizzare che il triplice fischio è suonato anche per te e che adesso, mentre corri dietro a un pallone a partita finita, il rischio di scivolare nella barzelletta è pericolosamente concreto. Non sarà stata l'Australia, magari non sarebbe stata neppure questa cazzo di India, ma scendendo il viale del tramonto contromano prima o poi sarebbe toccato alle Far Øer. A tutti noi, tifosi di Del Piero a prescindere dal campanile, resta grande amarezza. Quello non è il suo posto. Da quelle parti si sono ributtati nel gioco anche altri italiani celebri: Materazzi fa il giocatore-allenatore del Chennai e ha appena ingaggiato Alessandro Nesta, la squadra è prima in classifica e Matrix molto amato. Ci sono anche Trezeguet, Pires, Anelka e altri ex big sparsi fra le varie franchigie della premier indianta e gli stadi sono sempre pieni, con una media spettatori oltre le 24mila presenze, più della nostra Serie A e molte altre leghe europee. Ma resta comunque il calcio in cui Del Piero va in panchina. Ai tempi, non sarebbe stata neanche una barzelletta. di Fabio Corti

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