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Sanità: scompenso cardiaco, i ricoveri decuplicano la spesa

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Milano, 13 nov. (AdnKronos Salute) - L'Italia invecchia con un trend inarrestabile che la colpisce al cuore. La carica di 'tempie grigie' "sta cambiando l'epidemiologia dello scompenso cardiaco". Il "corteo di segni e sintomi" che caratterizza la sindrome del cuore stanco - dalla fame d'aria ai gonfiori, da un senso di stanchezza profonda fino a una compromissione della memoria e dello stato cognitivo - interessa oggi "l'1,5-1,8% della popolazione", ma i pazienti aumentano al ritmo di "circa 80 mila nuovi casi all'anno" e si calcola che entro un decennio gli 'scompensati' saliranno al 2,3% dei connazionali. Con un impatto pesantissimo anche sul fronte economico. Complessivamente, infatti, la malattia costa già al Paese circa 3 miliardi di euro l'anno e "a fare la differenza sono i ricoveri". Che arrivano quasi a decuplicare i costi. A fare il punto con l'AdnKronos Salute è Fabrizio Oliva, direttore della Struttura complessa di Cardiologia 1-Emodinamica all'ospedale Niguarda di Milano, in occasione dell'evento formativo 'Esperienze a confronto 2017. Updates and best practice in Hf' che si è svolto a Pero, alle porte del capoluogo lombardo. Fra i temi al centro del dibattito la svolta segnata dallo studio 'Paradigm-Hf' sull'associazione sacubitril/valsartan, capostipite di una nuova famiglia di farmaci - gli Arni - che nei pazienti con scompenso cardiaco cronico sistolico (ridotta funzione di pompa), rispetto all'Ace-inibitore enalapril, si è dimostrata in grado di ridurre del 20% la mortalità cardiovascolare e del 21% e i ricoveri associati alla patologia. Un dato chiave, perché nella voce spesa "è quello che fa la differenza: una persona con scompenso cardiaco - spiega lo specialista - se non ospedalizza, costa in media 600-700 euro all'anno, altrimenti siamo intorno ai 5.600 euro". E poi c'è la prognosi: "La mortalità intraospedaliera è intorno al 6-8%; quella a un anno dal ricovero intorno al 25%, con punte del 45% negli over 75", indipendentemente dalla gravità dell'insufficienza d'organo. Da qui l'importanza cruciale di "riuscire a tenere il paziente fuori dall'ospedale", sottolinea Oliva che, parlando del caposaldo prevenzione, pone l'accento anche sul ruolo di ambiente e stili di vita. Lo smog, per esempio, "può sicuramente aggravare una condizione cardio-respiratoria al limite". Ed emergenze come l'alcol e le droghe, vecchie o nuove, contribuiscono a "un deterioramento cardiaco anticipato". Complici le cattive abitudini, "i pazienti arrivano da noi più giovani - conferma l'esperto - e hanno spesso situazioni di cardiopatia rilevante o severa". Per diffusione, "uno dei fattori di rischio assolutamente più rilevanti continua a essere il fumo - avverte Oliva - Poi c'è la dieta, che continua a essere lontana dall'ideale, oltre all'attività fisica insufficiente". Tra i principali nemici del cuore ci sono il colesterolo e la pressione alti, il diabete e l'obesità. "Sull'ipertensione in questi anni siamo riusciti ad agire bene - osserva il medico - ma i dati 2016 ci dicono che le malattie cardiovascolari sono responsabili di oltre il 32% delle morti in Italia". Restano il killer numero uno, causa di un decesso su 3. Dire addio alle 'bionde', praticare sport moderato ma regolare, limitare lo stress, adottare un'alimentazione sana povera di sale e grassi: rimangono queste le regole d'oro per difendere il cuore ed evitare che, ammalandosi, si possa sfiancare. "Oltre che nel follow-up del paziente con cardiopatia cronica - precisa Oliva - c'è sicuramente un lavoro molto importante da fare nella prevenzione, che è una grande sfida per la sanità italiana in generale. Ancora oggi emergono infatti tutta una serie di fattori di rischio cardiovascolare che non sono assolutamente in linea con quello che dovrebbe essere". Prevenzione primaria, ma anche secondaria. Perché negli stessi malati di cuore gli stili di vita si mantengono a volte 'spericolati', inoltre "si fa molta fatica a ottenere un'adeguata compliance - evidenzia lo specialista - Si verificano purtroppo interruzioni di terapia più precoci di quello che dovrebbero essere, e a volte immotivate. Il problema è che durante il ricovero non sempre è facile educare adeguatamente sugli stili di vita, e dopo la dimissione il paziente un po' si perde. Ciò che ci dobbiamo proporre di riuscire a fare - conclude il cardiologo - è di dare un contenuto vero al termine 'continuità assistenziale': ci deve essere un legame forte tra ospedale e territorio, perché puntare sulle buone abitudini e sull'igiene di vita è fondamentale", e il malato va tenuto per mano e guidato nel tempo.

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